Tra una capatina ad Ambelia, per la fiera del Cavallo, e una foto con la Vezzali, alla festa della scherma, il governatore Musumeci ha (probabilmente) perso di vista quanto sta accadendo in Sicilia. Dentro e fuori da palazzo d’Orleans. La crisi dei conti, con l’esigenza di una mini-manovra correttiva per non mandare al macero servizi e lavoratori, e la crisi politica, che si consuma un giorno sì e l’altro pure tra l’Ars e la sede del governo, sarebbero motivo di acute riflessioni. E invece, il presidente della Regione, che solo qualche giorno fa è tornato in aula per parlare del nulla delle ex province, sembra dormire sonni tranquillissimi. Adagiandosi sul periodo della semina, che trascorre lento da un anno e mezzo di legislatura, senza che quello del raccolto s’intraveda all’orizzonte.

Nel corso dell’ultima puntata, Musumeci, stretto com’era nell’imbuto di un’aula che aspetta solo la sua assenza per metterlo in imbarazzo – ci arriveremo – si è esaltato per alcuni risultati raggiunti a Vittoria, dove sono stati aggiudicati i lavori per un impianto di compostaggio, o per il consolidamento del costone di Cartabellotta, o per il milione di finanziamento al comune di Salemi per il Monte delle Rose. O per alcune riforme di cui si parla da mesi, tra cui Pesca e Diritto allo Studio (giudicata inutile dai grillini). Risultati preziosi – chi lo nega? – ma non abbastanza per giustificare una presenza abbarbicata alla guida della Regione. Che presupporrebbe schemi, politici e programmatici, che in questo anno e mezzo non si sono visti.

Tanto da indebolire Musumeci, che colleziona fregature in serie. Su un doppio fronte: Palermo e Roma. Ad esempio al Ministero dell’Economia. Che in più di un’occasione, mandando indietro il vice-governatore Armao con il cappello in mano, ha ribadito che non se ne fa nulla della proposta di spalmare su trent’anni una parte massiccia del disavanzo da due miliardi maturato dalla Sicilia nei confronti dello Stato: ossia quei 543 milioni di euro che, diluiti su tre anni piuttosto che in trenta, obbligheranno la Regione a operare tagli drastici come previsto dall’ultima manovra finanziaria. Musumeci non ne ha mai parlato. Ha insistito con il “fido” Armao, spedendolo ai tavoli con Tria, da cui è uscito sonoramente bastonato: anziché ottenere una sospensiva dell’assurda misura richiesta da Roma – che in questo modo rischia di affossare la Sicilia – ha ottenuto soltanto un mini impegno affinché la parte allarmante del debito (i 543 milioni di euro di cui sopra) vengano spalmati da qui a fine legislatura. Con un surplus di sei mesi rispetto all’iniziale richiesta di tre anni. Gran bel guadagno.

Il provincialismo di Musumeci, che piazza ovunque lo sfiduciato (da Forza Italia) assessore Armao agli appuntamenti più importanti – dalle conferenze Stato Regioni agli incontri nei Ministeri – è un alibi fornito a se stesso per non macchiarsi di fallimenti plateali. Come nel caso delle ex province. Armao ha strappato al sottosegretario M5S Villarosa un patto umiliante per la Sicilia: anziché ottenere, come richiesto da più parti, la restituzione del mal tolto (i 243 milioni di “restituzioni” – mai ottenute – alle voce prelievo forzoso) o i 350 milioni dal Fondo Coesione e Sviluppo (di per sé non sarebbe un’ideona, dato che si sottraggono soldi al capitolo investimenti) per “salvare” gli enti d’area vasta, è tornato a casa con 140 milioni complessivi, di cui una quarantina verranno stornati altrove. Così le province, già morte, finiranno per essere seppellite.

Eppure vogliono votare. Un altro aspetto della decadenza. Come non bastasse la partita, sempre aperta, delle nomine del sottogoverno (ultima quella di Ester Bonafede alla Sinfonica) – che denota una qual certa crisi di personalità per un centrodestra che mette dentro innumerevoli espressioni della stagione di Crocetta – ci si mettono le ex province. Si era deciso di portare Città Metropolitane e Liberi Consorzi a votare per il rinnovo delle cariche (pseudo)elettive, stroncando così sei anni di commissariamento. Al voto avrebbero dovuto partecipare sindaci e consiglieri comunali, non a caso si chiamano elezioni di secondo livello. Ma mentre il governatore era via – si trovava a Roma per discutere di infrastrutture – parti corpose della sua maggioranza si coalizzavano per rinviare il voto dal 30 giugno di quest’anno al 30 aprile del prossimo. “Fermi tutti”, ha urlato Musumeci tornando in Sicilia. “Presenteremo un emendamento per ristabilire l’ordine delle cose” e annullare la precedente deliberazione, arrivata grazie al voto segreto (metterci la faccia, mai) di una maggioranza sconquassata, che lo stesso governatore si diverte a dire che non esiste. Ma non può, questo, diventare un titolo di merito. E comunque, per riannodare i fili, l’emendamento promesso da Musumeci è stato ritirato dallo stesso Musumeci. E nessuno ha capito il motivo. Persino il presidente dell’Ars Gianfranco Miccichè, dopo l’omelia di Nello ai deputati, è stato costretto a sospendere la seduta per capire come andare avanti. Danza e contraddanza attorno alle ex province morenti: che restano senza soldi e senza rappresentanza.

Un tourbillon di emozioni, e di lenta ma progressiva erosione della figura e delle funzioni del governatore, che potrebbe ripresentarsi in sede di rimpasto. All’indomani delle elezioni Europee – quelle del boom leghista – Musumeci aveva annunciato un rimpasto entro l’estate. Poi s’è trasformato in “rimpastino”. Adesso il capo dell’esecutivo vorrebbe prender tempo prima di ufficializzare la sostituzione di un singolo assessore, Sandro Pappalardo, un altro del cerchio magico musumeciano che già da mesi s’è chiamato fuori per sopraggiunti impegni (la nomina all’agenzia nazionale per il Turismo). L’attesa della semina. Eppure il nome del successore sarebbe lì, servito su un piatto d’argento: si tratta di Manlio Messina, uomo di punta di Fratelli d’Italia in Sicilia.

Il governo di Musumeci è diventato un governicchio: con un assessore tragicamente scomparso, Tusa, e uno che ha già rassegnato le dimissioni (Pappalardo), il motore è depotenziato. Ma c’è di più: altri due membri dell’esecutivo sono in odor di “vacanza anticipata”. Si tratta dei forzisti Armao – che Miccichè in campagna elettorale ha definito un “ex assessore” ma che Musumeci continua a spedire su e giù per l’Italia – e Bandiera. L’assessore all’Agricoltura, reduce da un risultato non entusiasmante nella sua Siracusa (dove Forza Italia è stato quinto partito, dietro Fratelli d’Italia), paga rapporti non idilliaci, si dice, con la deputata Stefania Prestigiacomo. E il rimescolamento delle carte seguito alle elezioni di dieci giorni fa, lo pone a fortissimo rischio. Ci si aspetta, dentro Forza Italia, un riequilibrio delle forze, anche su base territoriale.

A parte i due “berluscones”, ci sono altri interrogativi eccellenti: uno riguarda i due membri in quota Udc – Turano e Pierobon – che paiono francamente troppi rispetto alla rappresentanza parlamentare dell’ex scudo crociato. L’altro, invece, è relativo a una più equa distribuzione fra popolari e autonomisti, che in Assemblea farebbero parte dello stesso gruppo. Raffaele Lombardo, dopo la pace elettorale con Romano, gioca al rialzo. Mentre il leader del Cantiere Popolare, reduce da una campagna infuocata con Forza Italia, ha confermato – nonostante voci di corridoio facessero intravedere una tensione crescente – la fiducia nei suoi due assessori: Cordaro e Lagalla.  Insomma, il “rimpastino” auspicato da Musumeci, dovessero vincere le ambizioni di partito, diventerebbe un rimpastone (con la Lega a guardare, per ora). E il governatore, visti i numeri, non è nelle condizioni di opporre troppa resistenza.

Servirebbe un buon medico per lenire le ferite di questo governo e di questa maggioranza. Ma purtroppo in Sicilia non ce ne sono rimasti. E’ notizia di questi giorni che al concorso bandito per i pronto soccorso, si siano presentate 101 persone per 121 posti disponibili e l’assessore alla Salute, Ruggero Razza, propone di uscire dall’impasse affiancando gli studenti non ancora specializzati ai medici più esperti, o magari di fare come in Veneto: riabilitare quelli in pensione con contratti a tempo determinato. Per non svuotare le corsie. Anche la sanità, che fin qui ha tenuto botta, rischia di liquefarsi: l’assenza dei camici bianchi, e i pazienti che preferiscono curarsi altrove, sono l’aspetto più tetro di un’Isola destinata a galleggiare. Ripartire? Quello mai.