A volte sembra – ma sappiamo che non è così – che l’unico motivo per giustificare la propria presenza sulla scena politica sia la caciara. A volte, il giustizialismo. Altre, la doppia morale. Ma così il Movimento 5 Stelle, che nel resto d’Italia, alle ultime Europee, ha subito una sonora legnata, anche in Sicilia rischia di fare la stessa fine. D’altronde, le urne un segnale l’hanno dato: il 31,18% ottenuto lo scorso 26 maggio, che in termini assoluti rappresenta un risultato monstre, è poca roba rispetto al 48% (dato del Senato) di un anno prima alle Politiche. Voto d’opinione uno, voto d’opinione l’altro. In mezzo, qualche tiepida esultanza per i risultati di Caltanissetta e Castelvetrano, che al ballottaggio hanno regalato ai 5 Stelle un’affermazione quasi insperata. Ma anche le batoste di Gela e Bagheria, due comuni amministrati (male, evidentemente), che hanno smorzato gli entusiasmi.

Se la tendenza dovesse confermarsi, per Cancelleri e soci non saranno rose e fiori. La classe dirigente grillina, almeno in Sicilia, dà prova di grande unità. Anche alle Europee, ad esempio, ha sostenuto convintamente l’ascesa di Ignazio Corrao di fronte all’imposizione dell’ex Iena Giarrusso e, soprattutto, della sarda Alessandra Todde. Eppure, in Sicilia più che altrove, è difficilissimo poter giustificare l’alleanza con la Lega su base nazionale. Soprattutto alla luce delle ultime situazioni che hanno creato un certo imbarazzo: le quote tonno di Favignana, ad esempio. “Prima di esultare per i risultati ottenuti in Sicilia – aveva detto Giancarlo Cancelleri, portavoce dei 5 Stelle nell’Isola – la Lega impari a mettere questa terra sullo stesso piano del resto del paese e si metta in testa che noi siciliani non ci stiamo più ad una politica che ci lascia solo le briciole”. Ma una manovra di governo, se di governo si può parlare, si fa in due. Addossare alla Lega le responsabilità per una cattiva condotta e prendersi, al contrario, i meriti se accade qualcosa di buono, è una strategia annacquata in partenza.

La riprova di questa confusione è arrivata qualche giorno dopo la tonnara. Con l’accusa, rivolta dal Movimento alla Lega, di aver cancellato dal decreto Sblocca Cantieri una norma salva-imprese, di fondamentale importanza per tutte i creditori della CMC che lavoravano nei cantieri della Palermo-Agrigento e della Agrigento-Caltanissetta. L’evidenza diretta di quel taglio sarebbe stata la sospensione dei lavori, ma i grillini – arrampicandosi sugli specchi – hanno “agganciato” il Fondo di garanzia al decreto Crescita, salvando capra e cavoli (così sembra). I 5 Stelle siciliani, che non disdegnano le visite nei Ministeri o le “ospitate” nei cantieri a Toninelli, non sono parsi così attivi quando la Regione ha intavolato un paio di discussioni di prim’ordine con lo Stato: come quella sui conti pubblici e sulle ex province.

Nel primo caso – notizia fresca di due giorni – il Ministro Tria, alla conferenza Stato-Regione, ha concesso la spalmatura di un disavanzo da mezzo miliardo in 10 anni anziché nei 30 richiesti da Musumeci e Armao. Se davvero i 5 Stelle vantassero buoni uffici a Roma, avrebbero fatto il possibile per ottenere una spalmatura più dilatata: in ballo, oltre all’onore e alla paternità del successo, c’è il destino di servizi, teatri, associazioni e lavoratori che nei prossimi Bilanci regionali dovranno comunque accontentarsi degli scarti. Ecco, se il Movimento avesse ragionato più da partito di governo che non di lotta, avrebbe potuto fare squadra con l’odiato governatore in nome di una causa più alta.

Che i grillini siciliani non siano “facilitatori” del lavoro di Musumeci & friends lo si è capito anche sulla questione delle ex province, dove l’accordo sottoscritto dalla Regione con il sottosegretario Villarosa (anch’egli grillino) – quello che prevede di affidare all’Isola 140 milioni (a fronte di una richiesta di 350) per risanare i bilanci di Liberi Consorzi e Città Metropolitane – è stata salutata con enfasi dal Movimento (“Abbiamo voluto fortemente questo risultato e lo abbiamo ottenuto” ha detto il deputato regionale Antonio De Luca), pur sapendo benissimo che è una toppa ininfluente. Che riduce la possibilità di investimenti per l’Isola – i soldi arrivano dal fondo di Coesione e Sviluppo – anziché migliorarla. E, soprattutto, che non cancella l’approssimazione con cui i 5 Stelle, assieme a Crocetta e al suo governo, decretarono il “fine vita” degli enti d’area vasta.

Ma si sa: il concetto di opposizione responsabile e costruttiva è una meteora per l’intera classe politica. Anche all’Ars, al Movimento, non riesce così bene. Il governo Musumeci, a parte le ultime leggine sui Marina Resort, sul Diritto allo Studio e sulla Pesca, non ha prodotto chissà cosa. Ma i Cinque Stelle, capaci solo a denunziare con numeri rivedibili, l’operato dell’Assemblea Regionale (dove vantano il gruppo parlamentare più numeroso, fra l’altro), si sono prestati a una opposizione fumosa, per non dire infruttuosa. Con temi da campagna elettorale che al momento non pagano dividendi (fra tre anni e mezzo, quando si tornerà al voto, chissà).

Il tema dei vitalizi è stato il più dibattuto fin dall’insediamento dell’esecutivo. E’ un marchio di fabbrica d’altronde. E ancora oggi, un giorno sì e l’altro pure, il M5S lo usa per infilzare i politici vecchio stampo (su tutti il presidente dell’Ars, Miccichè). Mettendoli di fronte a uno scenario inquietante: se non tagliate subito la pensione agli ex parlamentari (talvolta fino al 50%), recependo la legge di Camera e Senato, arriverà sulla Sicilia una stangata da 70 milioni. Il cosiddetto taglio dei trasferimenti previsto dall’ultima Finanziaria nazionale. Il risultato che sono riusciti a produrre dopo mesi di dibattito, anche e soprattutto in Consiglio di presidenza, è la creazione di una commissione ad hoc, diretta dal forzista Stefano Pellegrino, che dovrebbe provvedere all’attuazione di questi tagli. Ma nei modi ritenuti più opportuni dall’Ars.

E c’è un altro tema da “propaganda elettorale” puntualmente ritirato fuori dalla compagine grillina. Quello che riguarda assessori e deputati indagati, la cosiddetta “questione morale”. Che giovedì scorso è stata al centro di un dibattito parlamentare all’Ars, fortemente invocato dai 5 Stelle e da Claudio Fava. Mentre il presidente della commissione parlamentare Antimafia, in modo saggio, ha chiesto ai colleghi di non trasformarlo in un’invettiva o in un rito assolutorio, il deputato De Luca ha esordito con un attacco violento (e poco “onorevole”) a Nello Musumeci: “Tutto quello che c’è intorno a lei sa di fetido. Lei diceva che non si sarebbe fatto tirare la giacchetta. Ma s’è venduto la giacchetta e anche la dignità”. Un incipit che ha trasformato la seduta in un riprovevole scambio d’accuse, facendo venir meno l’indirizzo di Fava e, soprattutto, il motivo dell’incontro che i 5 Stelle invocavano da tempo. Per cosa, poi? Per trasformarlo in una piazzata?

Il senso del rancido, il pensiero a trazione giustizialista, è tipico del Movimento. E’ la sua ragion d’essere. Ma non si può, e non si dovrebbe, trasformare ogni singolo momento dell’attività istituzionale in un tiro al piccione. Il senso degli attacchi di giovedì scorso è stato far scadere la polemica, alimentare il conflitto, ripristinare le barriere. Come quelle che “impediscono” ai tre componenti grillini della commissione Bilancio di partecipare alle riunioni perché il presidente Riccardo Savona è indagato. L’opposizione a orologeria, che andava benissimo prima che il Movimento salpasse alla guida del Paese, oggi rischia di diventare un’arma a doppio taglio. Persino meno credibile rispetto a una classe politica che non s’è ancora ripresa dagli scandali. Ma può contare, sempre e comunque, sulla stampella giustizialista dei grillini. Che urlano tanto e ottengono poco, quasi nulla. Solo un’immensa coltre di fumo ove è sempre più faticoso orientarsi. Anche per loro.