“Prima facciamo, meglio è”. Lo aveva detto l’assessore Armao durante l’esame del Bilancio, alla vigilia della scadenza dell’esercizio provvisorio. Ma questa moral suasion nei confronti del parlamento ha avuto i risultati (nefasti) che era facile pronosticare. In pratica è andata così: l’assessore, dopo aver presentato la manovra in Assemblea all’ultimo minuto utile (e senza il parere obbligatorio del Collegio dei Revisori) ha chiesto ai deputati di approvare seguendo una procedura d’emergenza (imposta indirettamente a Micciché). Senza cioè il passaggio dalle commissioni parlamentari. Una mossa in 24 articoli che non contenevano granché di significativo e che, nonostante tutto, sono stati smontati pezzo dopo pezzo dalla spina dorsale di un parlamento che s’è ribellato al tentativo di ammazzare la democrazia e il dibattito. Come? Presentando una marea di emendamenti e determinando la sconfitta politica e amministrativa di un governo che anche all’ultimo giro di valzer ci ha rimediato una mala figura.

Ma andiamo per gradi. Questo tentativo del “bere o affogare”, denunciato in primis dal Partito Democratico, si è ritorto contro lo stesso Musumeci. Prima, vera vittima dell’operato del suo assessore. Basti vedere cos’è accaduto a un pezzo dell’articolo 2, quello che prevedeva il potenziamento dell’attività di vigilanza sugli enti controllati – alias carrozzoni – attraverso una “attività ispettiva e di verifica giuridico-contabile” che “può essere espletata avvalendosi, oltre che dei dirigenti o funzionari regionali in servizio iscritti all’albo regionale degli ispettori contabili, anche di avvocati, commercialisti, aziendalisti, revisori dei conti, magistrati e avvocati dello Stato in quiescenza, di dirigenti o funzionari statali e regionali in quiescenza, di comprovata esperienza in materia contabile o amministrativa”. Macché. L’Ars ci ha visto un ritorno al passato. Una negazione del divieto già esplicitato con una norma ad hoc sulle nomine negli ultimi 180 giorni di legislatura. Così l’ha stoppato.

Gli unici soldi messi a disposizione del pubblico interesse riguardano, effettivamente, le imprese insediate all’interno delle Zes, i 700 mila euro per le cooperative dei taxi, la possibilità per i lidi balneari di ottenere la concessione anche se sprovvisti del Durc e, infine, la conferma del sostegno al reddito dei precari. Anche se, su quest’ultima misura, grava un misterioso taglio da 15 milioni ai danni degli Asu, cioè i precari storici ai quali il governo, nel 2021, aveva comunicato ufficialmente la fine di un’era, avendo fatto approvare una specifica norma sulla stabilizzazione. Norma impugnata. Adesso, in attesa della sentenza della Corte Costituzionale, 15 milioni sono spariti dal capitolo dedicato. Insomma, anche questa non sarà la Finanziaria dei lavoratori. Né quella delle imprese, dal momento che molte delle criticità del tessuto produttivo siciliano, non sono emerse – non ancora – in questa Legge di Stabilità. Né dei Comuni. L’articolo sulle riserve degli Enti locali dovrà essere riscritto e non è chiaro quale metodo prevarrà: se la spartizione morale o umorale di pochi fondi.

Giorgia Meloni dovrebbe sapere che sono queste le questioni in cui il rettissimo presidente Musumeci rischia di perdere la faccia. Questioni che, quasi certamente, nessuno le riferisce. Anche perché nel giochino dei tavoli e dei palazzi, restano ai margini. Anche se c’è un altro assessore, assai noto alla Meloni, che viene fuori malandato da questa Finanziaria: trattasi di Manlio Messina, che l’altro giorno è stato al centro dei veti incrociati da parte di maggioranza e opposizione. Le sue proposte sul turismo, come i 3,4 milioni destinati a eventi e iniziative vari, sono stati cassati da un emendamento soppressivo del Pd (con 25 voti favorevoli); mentre il capitolo dei patrocini onerosi, sempre con un sub-emendamento delle opposizioni (dove la maggioranza si è fermata a 11 voti), è stato svuotato a favore delle riserve dei Comuni. Un successone. La prova provata che non esiste più una coalizione di governo in grado di affidare all’aula una proposta che meriti la minima benevolenza.

Chi non ha ancora scelto da che parte stare, e che forse potrebbe decidere in base all’esito di questa legge Finanziaria, sono i lavoratori regionali. Quelli che rischiano di non vedere lo stipendio per le magagne interne ai partiti e agli schieramenti. Il ragioniere generale aveva spiegato che l’unico modo per salvaguardare le spettanze di maggio era arrivare all’approvazione della Legge di Stabilità entro ieri (fra attese e tempi tecnici passano una quindicina di giorni, che corrispondono al 27 del mese). Non è accaduto. Ma, restando al personale del comparto, non traspare grande soddisfazione per l’approvazione di un articolo che, secondo l’assessore Zambuto, “completa di stanziamenti necessari per il rinnovo del contratto collettivo di lavoro” (si tratta dell’articolo 4). Secondo i sindacati, i soldi sono insufficienti e non tengono conto della richiesta di riqualificazione che giace da tempo immemore sul tavolo del governo. Neanche per questa gente è la Finanziaria dei sogni.

Per molti, al contrario, è stata una Finanziaria da incubo. Quella che pone fine a una stagione di governo in cui l’unica velleità di chi ha occupato il potere è continuare a farlo senza che ci sia un’operazione a valle – trasparente e onesta – sull’azione amministrativa. Sui ritardi indubbi. E sui protagonisti acclarati. Ma non ditelo alla Meloni, o potrebbe risentirsi: secondo la leader di Fratelli d’Italia sono solo “capricci”.