Per avere contezza del disarmo dell’ultima Finanziaria, approvata giovedì a Sala d’Ercole, sarebbe bastato assistere alle ultime ore di lavoro. Agli stralci sofferti di Miccichè per impedire al governo altre sonore bocciature; alla resa di Musumeci, non prima di aver accusato di “ascarismo” alcuni pezzi della maggioranza. E basterebbe riassumere l’esito di alcune votazioni, condizionate dal voto segreto, per capire come la proposta complessiva dell’assessore all’Economia – condizionata in parte dall’accordo Stato-Regione – sia stata sonoramente respinta dai suoi stessi alleati. Ai quali è rimasto l’amaro in bocca per la mancata approvazione degli emendamenti aggiuntivi che avrebbero permesso un po’ a tutti, come sempre avviene, di “dare risposte al territorio di propria competenza”. Stavolta no. La manovra è asfittica e non ci sono soldi nemmeno per le mance.

Una manovra francamente inutile, la peggiore degli ultimi vent’anni, che, come ha ribadito in un intervento il capogruppo del Pd, Giuseppe Lupo, rischia di rappresentare “la Waterloo di Musumeci”, già duramente provato dall’esito (temporaneo) dell’inchiesta di Trapani sulla sanità. Una disfatta su tutta la linea che non ammette repliche: fra gli ultimi articoli rimasti fuori dal computo totale e che Musumeci – talmente insofferente al clima di Sala d’Ercole – non s’è nemmeno azzardato a difendere, c’era quella che avrebbe permesso l’assunzione diretta ai figli di Sebastiano Tusa, che non potranno beneficiare della norma di cui sono già destinatari i parenti delle vittime di mafia. Ma a saltare per aria è stata, soprattutto, la rubrica dell’assessore al Bilancio. Alcune norme chiave, come il tentativo di mettere i soldi in tasca ai regionali, decurtando le loro pensioni, è finita dritta nel cestino: grazie all’approvazione di un emendamento soppressivo sostenuto “apertamente” da alcuni deputati della maggioranza, fra cui i leghisti. Avrebbe comportato un risparmio di spesa di circa 4 milioni l’anno: una risposta agli impegni assunti con Roma.

Armao è caduto pure su un articolo, il 19, che prevedeva il controllo “sugli enti, istituti e aziende sottoposte a tutela e vigilanza regionale”, di professionisti esterni incaricati dalla Ragioneria generale. “L’attività ispettiva e di verifica giuridico-contabile – si leggeva nel terzo comma – può essere espletata (…) mediante la collaborazione, oltre che dei dirigenti o funzionari regionali in servizio iscritti all’albo regionale degli ispettori contabili, anche di avvocati, commercialisti, aziendalisti, revisori dei conti, magistrati e avvocati dello Stato in quiescenza, di dirigenti o funzionari statali e regionali in quiescenza, di comprovata esperienza in materia contabile o amministrativa nominati dal Ragioniere generale della Regione”. Bocciato.  Ed è venuta meno la proposta dell’assessore di affidare a Irfis, la banca della Regione, il supporto tecnico in favore dell’amministrazione regionale. Fra l’altro, la spesa prevista era esigua: un milione l’anno per tre anni. Ma cosa pretendi da un parlamento che decide d’impuntarsi e manda all’aria persino uno stanziamento da 50 mila euro per le gite scolastiche?

Il problema non è la singola norma – non solo – ma la catena di comando che si è sfaldata e non funziona più. Sempre a proposito di Armao, è clamoroso lo smacco sull’articolo 8. Approvato dall’aula – concede finanziamenti a fondo perduto alle imprese non bancabili – rischia di non essere attivato, perché la convenzione fra la Regione e la BEI (Banca Europea degli Investimenti) sarebbe costata 1 milione e mezzo. Un trucco, secondo le opposizioni, “per distribuire prebende agli amici degli amici” (lo ha detto Barbagallo, segretario del Pd). Mentre il grillino Di Caro ha parlato apertamente di “consulenze”. L’assessore, però, ha scaricato la rabbia (comprensibile) sul nostro giornale (un po’ meno), minacciando querela. Ovviamente a mezzo social, dove qualche ora prima, tacciando come “farisaico” l’emendamento proposto dal dem Giuseppe Lupo, aveva indisposto a tal punto le opposizioni da costringerle – all’unisono – a disertare una riunione col governo. “Mancanza di rispetto istituzionale”, si leggeva in una nota.

Il principale artefice di questa manovra, accusato di “trasformare la Finanziaria in una bagarre” dal democratico Dipasquale, ha sparato a raffica dai social, dove raccogliere like era più semplice che farlo in aula. Mentre in aula, dove contava, è rimasto praticamente all’asciutto. Fra le norme discusse, poi accantonate e mai più riprese, c’è anche l’ultimo tentativo di attrarre capitale straniero nell’Isola. L’articolo 50, una riproposizione del Modello Portogallo (già bocciato un paio di anni fa), si intitolava “Ritorno in Sicilia” e si proponeva di riconoscere “a titolo di incentivo”, per coloro che avessero trasferito in Sicilia la propria residenza fiscale, “un contributo parametrato alle imposte di spettanza della Regione (…) a titolo di addizionale regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), di tassa automobilistica per i veicoli di loro proprietà, di imposta di registro, ipotecaria, catastale per l’acquisto di beni immobili ricadenti nel territorio regionale”. Se ne riparlerà l’anno prossimo (forse), per l’ultima Finanziaria della saga.

Non è stata nemmeno una Finanziaria memorabile sotto il profilo dei ristori. A differenza della scorsa, che pur facendo affidamento a dei soldi di cartone, aveva indicato la battaglia al virus, il sostegno agli indigenti, la ripresa economica delle imprese, come priorità, quest’anno il governo ha fatto finta di nulla. Realmente. Appostando una manciata di milioni, su proposta delle opposizioni, per ristorare il settore wedding e la moda. Dieci milioni, a valere sui fondi Poc, sono stati destinati invece ai lavoratori stagionali. Stop. Una misura compassionevole, che non basta nemmeno a lavarsi la coscienza. Musumeci & Armao hanno promesso, in cambio, un’operazione record da 250 milioni per via amministrativa, ma pur sempre a valere su risorse extraregionali, la cui rimodulazione spetta a Roma. Mentre la Confcommercio e centinaia di imprenditori manifestavano in piazza del Parlamento, chiedendo a gran voce che la politica “ottusa” si occupasse anche di loro, all’interno del palazzo i deputati esultavano per la stabilizzazione di 4.500 lavoratori Asu. Legittimo, per carità. Ma persino questo barlume di luce nasconde un’insidia: i precari storici degli enti locali lavoreranno 14 ore al giorno, rischiando di lasciare scoperti alcuni servizi fondamentali per i Comuni.

Troppo poco. Il parlamento aveva già deciso di lasciare il governo nudo, rifiutando qualsiasi proposta di collaborazione. Respingendo sul nascere i tentativi di mediazione di Musumeci, che persino nelle ore immediatamente successive all’inchiesta di Trapani su Razza, si era soffermato in aula per assistere al naufragio. E alla fine, nel tentativo disperato di raccogliere i cocci (una norma proposta da Marianna Caronia, per la realizzazione di un Museo del Liberty a Villa Deliella), ha dovuto ammettere la sconfitta. Dando mandato a Miccichè di chiudere questa ‘maledetta’ manovra. Accusando di “ascarismo” i franchi tiratori (ma stavolta in maniera più umile e meno irritata che in passato). Deponendo le armi. Sembra arrivata la fase in cui l’unica preoccupazione è traghettare la Sicilia al voto. Un anno e mezzo così?