Sala Tatarella, Camera dei deputati. Giorgia Meloni prende in mano un bicchiere. Sgoccioli all’anno nuovo, un brindisi atteso dal sapore dolceamaro: “È trascorso un anno tosto ma non preoccupatevi, perché il prossimo sarà molto peggio”. Realismo o pessimismo, saranno i prossimi mesi a dirlo. Quando la premier, sempre forte nei sondaggi, dovrà districarsi tra le sfide internazionali, in bilico tra l’irascibile amico Donald Trump e gli alleati europei, resistendo alle pressioni leghiste sull’Ucraina, con un’economia interna stabile ma che non cresce e le sfide referendarie all’orizzonte. Un 2026 che ci dirà se Meloni invincibile lo è veramente.

I timori sono noti. La cavalcata di tre anni fa non ha portato alla rivoluzione, ma alla stabilità governativa. Non poco, passando in rassegna gli esecutivi italiani. Non abbastanza, ragionano negli ambienti meloniani, immaginando il futuro stallo. Numeri alla mano, nel 2027 le forze del centrosinistra unite riuscirebbero non a vincere ma almeno a scongiurare il bis del centrodestra.

Dalle parti di Fratelli d’Italia ragionano sulle tattiche preventive. Perse le regionali (uno scontato 2 a 1 a favore di Elly Schlein&Co), i luogotenenti della premier hanno iniziato ad accelerare sulla legge elettorale. Un proporzionale con ricco premio di maggioranza, con preferenze e soglie di sbarramento, capace di garantire altri cinque anni di potere a Meloni e alleati.

La formula è ancora malleabile, Forza Italia qualcosa concede, mentre la Lega talvolta appare riottosa. Cancellare i collegi uninominali sarebbe un colpo duro per il Carroccio, saldo nelle roccaforti del nord. Pressioni che la premier smaltirà nell’anno venturo. Bazzecole in confronto a quelle che, sempre suffragate da Matteo Salvini, dovrà affrontare sulle tematiche internazionali. Le tensioni, con l’Ucraina nel mirino, si spalmano su due fronti.

La fornitura di nuove armi a Kiev, con un decreto cornice da approvare nell’ultimo Consiglio dei ministri dell’anno, ha reso plasticamente le difficoltà che si respirano a Palazzo Chigi. L’atto verrà licenziato, con un preambolo ricco di differenze semantiche volute dalla Lega ma digerite dalla premier, che già in Europa ha dovuto battibeccare con la Germania per evitare lo sblocco dei fondi russi congelati.

Impasse europeo, che la Lega cavalca, consapevole delle incertezze di Meloni sul piano internazionale. Il rapporto di fiducia con Trump è un vanto che spesso si trasforma in boomerang, irrigidendo il mai sbocciato rapporto con il francese Emmanuel Macron e congelando Meloni, sempre più prudente – è questa la parola preferita nell’esecutivo – per non far innervosire il presidente Usa.

Il 2026 sarà “molto peggio”, quindi. Perché la partita ucraina non è affatto chiusa. Senza trionfi internazionali, sarebbero utili le vittorie in casa. A partire dai dati economici, che si riflettono su una manovra – da approvare, as usual, a ridosso del Capodanno – litigarella e parecchio stringata. Una finanziaria che ha visto emergere ancora di più la prudenza (ci risiamo) di Giancarlo Giorgetti, sentiment avallato da Chigi e picconato dalla Lega, stesso partito del ministro dell’Economia.

Al di là delle questioni sui singoli emendamenti, il “ministro delle Finanze dell’anno”, copyright Financial Times, si è trovato stretto in un tornante economico calmo ma con prospettive di crescita ridotte. Ridurre il deficit sotto il 3% è un successo che consente l’uscita dalla procedura d’infrazione europea con un anno d’anticipo, come ottimi sono i giudizi migliorati (ma in passato dileggiati) delle agenzie di rating, inclusa la severissima Moody’s, che premia l’Italia, o lo spread lontanissimo dagli spauracchi di berlusconiana memoria.

Uno scenario conquistato con una prudenza in parte comprensibile, in parte no. All’insegna del mantra giorgettiano e meloniano, i conti sono in ordine, ma la stabilità non ha portato a un maggiore coraggio politico. Lo testimonia la manovra striminzita, ma ancor di più la crescita ridotta. Un dato confermato dall’Unione europea, che ha tagliato al ribasso le stime: Pil non più allo 0,7%, bensì allo 0,4%.

Quasi un dimezzamento, che impensierisce Meloni. Problemi da risolvere in un anno insolitamente senza elezioni maggiori. Nel ben “peggiore” 2026 le mire della premier saranno soprattutto referendarie. Il voto sulla separazione delle carriere, riforma costituzionale e quindi senza quorum, è la vera ossessione di chi siede a Chigi. Mentre il nodo premierato sembra destinato al post elezioni politiche, impelagato in Senato com’è, l’interesse è tutto per la “Giustizia giusta”. Tema caro a Forza Italia, gradito alla Lega, sposato (anche qui) con prudenza da Meloni. Che non vuole trasformare un voto politico ma dal sapore tecnico in una scelta su di lei e sui suoi tre anni di legislatura. Un appuntamento che definirà ancor di più la forza di “Giorgia”, vera invincibile che forse così invincibile non è.

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