Nel tourbillon dei commenti a caldo si dichiaravano tutti vincitori: Schifani, Caruso, Cuffaro, Sammartino. Ma col passare dei giorni, l’autoanalisi del centrodestra sta portando a galla malumori a tratti feroci. La coalizione di governo, domenica scorsa, ha conquistato la presidenza di quattro Liberi consorzi (su sei). Ma è un risultato che, se letto oltre la superficie, restituisce l’immagine di uno schieramento che ha la forma del cous cous appena sgranato. Più che un successo, quello delle Provinciali appare una vittoria zoppa, logorata da competizioni interne, candidature contrapposte, veti incrociati e – come alcuni alleati non hanno esitato a denunciare – una gestione padronale da parte di Forza Italia. In sintesi, un centrodestra “a somma zero”.
È bastato il primo commento del commissario regionale di Fratelli d’Italia, Luca Sbardella, per chiarire che qualcosa non ha funzionato: “Se fossimo andati compatti, avremmo stravinto ovunque”, aveva detto l’emissario mandato in Sicilia dalla Meloni per riunificare un partito logorato dagli scandali. Il riferimento ai “troppi posti” in cui il centrodestra non si è presentato unito suona come un’ammissione di colpa, ma anche come un avvertimento. Il rischio di trasformare le prossime tornate elettorali in una serie di battaglie fratricide è più che concreto (con Galvagno, come ovvio, alla finestra).
Il commissario ha poi rincarato la dose a Live Sicilia, puntando il dito contro l’atteggiamento “poco educato” di Forza Italia: “Hanno chiesto perentoriamente la candidatura a Caltanissetta, provincia che era nei piani anche della Lega”. FI “ha al suo interno una serie di anime in competizione tra loro ma non esiste uno spirito unitario di partito. Nessuno in Forza Italia è disposto a fare un passo indietro per il compagno di partito di un’altra provincia, sono stati quelli che spesso hanno creato più problemi. Personalmente mi sarei aspettato maggiore impegno da parte del presidente Schifani nel cercare una quadra”.
Ma è anche Massimo Dell’Utri, segretario regionale di Noi Moderati (e candidato alle scorse Europee con FI, capace di catturare quasi 70 mila preferenze), a rompere il velo dell’ipocrisia. La sua analisi a Live Sicilia non lascia spazio a interpretazioni: “Ha vinto una parte della coalizione, con l’ausilio di una parte del centrosinistra. Tutto questo si doveva evitare con liste unitarie”. La critica è doppia: da un lato l’assenza di una regia comune, dall’altro l’accusa rivolta a Forza Italia di aver agito da “cannibale”, sacrificando gli alleati minori sull’altare di un dominio politico numerico. È lo stesso Dell’Utri a ricordare che, alle ultime Europee, Noi Moderati aveva dato un contributo importante proprio alla lista comune con gli azzurri. Ma la memoria, si sa, in politica è selettiva. Così come lo è la redistribuzione del potere: emblematico il caso di Palermo, dove l’area Lagalla – che in consiglio comunale esprime quattro consiglieri – ha eletto un solo rappresentante al consiglio metropolitano.
Questa forma di cannibalismo è la conseguenza estrema di un rapporto ormai logoro – quello fra il presidente della Regione e il sindaco di Palermo – che rischia di avere conseguenze e ricadute pure sul dialogo con Raffaele Lombardo, che assieme a Lagalla e Micciché ha fondato Grande Sicilia. L’ex governatore, leader autonomista (federato con Forza Italia), è tornato a parlare su Repubblica, usando parole taglienti verso l’asse Cuffaro-Sammartino (non è certo la prima volta), definito “ovunque perdente”. Secondo Lombardo, si è preferito anteporre ambizioni personali alla costruzione di una visione comune: “Ognuno voleva portarsi a casa il suo trofeo”.
E proprio su questa linea si innesta un altro episodio che vale più di tante dichiarazioni: a Ragusa e Agrigento, il centrodestra ha tagliato fuori dalle proprie affermazioni elettorali (la seconda ottenuta con il contributo decisivo di Pd e M5s) Totò Cuffaro. Cioè colui che avrebbe voluto esprimere almeno un candidato alla presidenza. L’ha fatto a Ragusa, ma è stato costretto a correre da solo: segno di un ostracismo politico ormai conclamato, che secondo il diretto interessato “ha guidato le alleanze di Lombardo” e “di frange di Forza Italia nelle ultime consultazioni”.
Tutto questo mentre Renato Schifani, da Palazzo d’Orléans, provava a offrire una lettura ottimista: “Forza Italia si conferma forza trainante del centrodestra” e “si registra un rafforzamento rispetto alle regionali del 2022”. Dichiarazione legittima, ma parziale. Perché se è vero che il bottino numerico sorride agli azzurri, è altrettanto vero che il prezzo politico della vittoria potrebbe rivelarsi più alto del previsto. Anche dentro Forza Italia non mancano i segnali di insofferenza: Marco Falcone e Giorgio Mulè – il primo denunciando il mancato intervento della segreteria regionale a Enna, il secondo invitando Schifani a rimuovere i mercanti dal tempio – hanno lasciato intendere che il clima nel partito e nella coalizione è tutt’altro che sereno. Il punto debole? Proprio quella leadership che Schifani rivendica, ma che – nei fatti – viene messa in discussione da più fronti (a Marcello Caruso saranno fischiate le orecchie…).
Il tavolo regionale della coalizione, evocato a più riprese da alleati insoddisfatti, sembra ormai un’immagine stinta. Né luogo di sintesi né motore di strategia comune. E allora il paradosso è servito: il centrodestra vince, ma non convince. Tiene i numeri, ma perde sul piano della progettualità. E se non recupera coesione e visione, rischia di arrivare alle prossime sfide elettorali con una coalizione in apparenza solida, ma in realtà minata dall’anarchia, dove ciascuno gioca per sé.
Il primo a mettere le cose in chiaro, nel processo di avvicinamento alle prossime Regionali, è proprio Lombardo: “È il presidente che monitora l’efficienza e la qualità dei vari rami del governo e degli enti regionali – ha detto a Repubblica, esplorando il tema del rimpasto (lo aveva già fatto all’indomani delle Europee, senza fortuna) -. Sul piano quantitativo poi è palese la sproporzione tra il consenso e le responsabilità attribuite ed è un’anomalia che va corretta”. In pratica vorrebbe un secondo posto in giunta, a scapito della Lega o della DC. Dell’Utri si limita ad agire in surplace: “Non c’è dubbio che il presidente della Regione debba prendere in mano la situazione e ricompattare il tutto. Lui è il leader, ma se il tavolo regionale non funziona tutto diventa più complicato”.
Mentre Sbardella e i suoi patrioti, tenuti in piedi dall’asse paternese (Galvagno & La Russa), hanno messo le cose in chiaro già da prima: ad esempio tenendo in “ostaggio” il dipartimento Pianificazione strategica dell’assessorato alla Salute e la poltrona di Direttore generale dell’Asp di Palermo, dove vorrebbero calare un proprio nome; ma anche costringendo Schifani a una forma di controllo centralizzata sul destino di due aeroporti (Palermo e Catania) cruciali per lo sviluppo dell’Isola e per la gestione di importanti leve di potere. Hanno messo le mani in pasta prima che il voto di secondo livello di domenica scorsa desse il proprio verdetto incontrovertibile: ma che coalizione è questa?