L’apparente equilibrio all’interno di Forza Italia, in Sicilia, è violato da un paio di avvenimenti accaduti negli ultimi giorni: il primo, già raccontato da autorevoli cronisti, è la rottura fra il presidente Schifani e il capogruppo all’Ars, Stefano Pellegrino, nel corso del vertice di coalizione all’indomani della battuta d’arresto sui Consorzi di Bonifica; la seconda, di altra levatura, proviene da Roma e riguarda le modifiche al regolamento per la nomina dei coordinatori regionali del partito, approvata venerdì. Non sarà più una prerogativa del segretario nazionale – al momento Antonio Tajani – bensì del congresso. Chiunque vorrà arrogarsi il privilegio di dirigere la baracca, dovrà passare dal “basso” e dal voto degli iscritti (con almeno due anni di militanza).
Non si ripresenterà più un “caso Caruso”: la nomina dell’attuale coordinatore regionale, ex segretario provinciale di Italia Viva a Palermo, fu “imposta” a Berlusconi (col Cav. ancora in vita) da Schifani per sbarazzarsi dell’ombra di Gianfranco Micciché. Ma, soprattutto, le novità romane – subito accolte con gioia da alcuni storici esponenti “non allineati” quali Marco Falcone e Tommaso Calderone – potrebbero essere una grana soprattutto per il presidente della Regione, che fino ad ora ha fatto e disfatto a proprio piacimento la tela degli azzurri. Così invece rischia l’isolamento.
La linea adottata da Tajani, peraltro, è figlia delle parole di Pier Silvio Berlusconi, che ha richiesto un’apertura e un coinvolgimento maggiore di “facce nuove”. Per garantirsi i lauti sovvenzionamenti della famiglia del Cav. l’attuale classe dirigente dovrà cedere un pezzetto del proprio controllo. Ed eccoci a ieri. La decisione assunta dal Consiglio nazionale, peraltro guidato da Schifani, avrà inevitabili riflessi in Sicilia. In cui né Schifani, tanto meno il suo ventriloquo, godono dell’appoggio incondizionato dei “sudditi”. Non più.
Persino il servizievole Pellegrino, che da buon marsalese si era intestato l’emendamento alla Finanziaria per garantire 300 mila euro di contributo al Trapani calcio (dove lavora da avvocato il figlio del governatore), l’altro giorno si è presentato in conferenza dei capigruppo per perorare la causa di alcuni sindaci, quelli di Acireale e Misterbianco che chiedevano maggiori risorse in finanziaria per il trasporto dei rifiuti all’estero e per gli assistenti degli alunni disabili. Il primo, Barbagallo, è vicino al deputato acese Nicola D’Agostino; l’altro, Marco Corsaro, è invece della scuola di Falcone. Così il governatore è caduto dal pero: “E tu chi rappresenti?”, è stata la domanda per gelare l’interlocutore (sempre bravo a smentire le ricostruzioni dei giornali, ma rimasto zitto in questo caso).
L’episodio con Pellegrino rappresenta l’apice di uno scontro sotterraneo con alcuni esponenti di partito che si è consumato nei mesi: a partire da Tamajo, che tuttavia resta l’unico assessore forzista in giunta a fronte di 14 parlamentari. Il siracusano Gennuso, l’agrigentina La Rocca Ruvolo e la messinese Grasso non hanno partecipato al voto sui Consorzi di Bonifica. Il deputato nazionale Tommaso Calderone non ha mai nascosto una certa insofferenza per le mancate risposte dell’assessore alla Salute, Daniela Faraoni, sui problemi della sanità barcellonese (quindi, del suo collegio elettorale). Lo stesso assessore, scelto da Schifani, pende più dalla parte della Lega di Sammartino, elemento che avrebbe esacerbato gli animi forzisti a fronte della nomina dello scorso gennaio, dopo le dimissioni di Volo.
In tutto questo Caruso gioca un ruolo determinante, almeno all’apparenza. Più volte il gruppo all’Ars, ma anche importanti esponenti nazionali, si sono scagliati sul coordinatore per aver avallato una gestione centralizzata del partito, senza alcun coinvolgimento dei gruppi parlamentari, e soprattutto per aver trascurato le competenze interne a beneficio di un paio di tecnici (oltre alla Faraoni, anche Dagnino all’Economia). Qualcuno aveva abbozzato una lettera per chiederne la revoca dall’incarico, ma con Tajani si è preferito buttare un po’ d’acqua sul fuoco. Inoltre, un pezzo non trascurabile di Forza Italia legge con sospetto, per non dire fastidio, l’avvicinamento tra Schifani e il sindaco di Taormina Cateno De Luca, fino all’altro ieri uno dei più tenaci oppositori. Specie nel Messinese.
Insomma, la situazione non è per nulla rassicurante e potrebbe deflagrare se qualcuno dei forzisti delusi, nel segreto dell’Assemblea regionale, dovesse provare a impallinare – dopo la riforma dei Consorzi di Bonifica – anche la manovra-ter. A quel punto per il grande capo, che da solo riesce a malapena a garantire qualche concerto a Mediaset per animare il capodanno della famiglia Berlusconi (e degli italiani), diverrebbe intrattabile.
Ma Forza Italia, o quel che ne è rimasto, chiede a Schifani una cosa sola: avere un briciolo del rispetto istituzionale toccato, invece, a un altro partito della coalizione: Fratelli d’Italia. Ai patrioti non sono bastati gli scandali, poi diventati inchieste della Procura, per pagare pegno (almeno) con la rinuncia all’assessorato al Turismo: la Amata è sempre lì. Mentre Tamajo – per restare al classico esempio – sopravvive quasi da separato in casa, perché il peggior incubo di Schifani è essere sorpassato all’ultimo chilometro in vista delle Regionali. Ma Edy non è come Pellegrino, perché ha i voti. Per questo è stato “graziato” – finora – da improvvide lavate di capo o sfuriate pubbliche. Al limite qualche segnale d’avvertimento (come la rimozione del Direttore generale del dipartimento).
Forza Italia, in fin dei conti, è sospeso fra due immagini ricorrenti: il partito che scoppia di salute (come vorrebbero fra credere le ultime adesioni, da Minardo al sindaco di Ragusa Cassì) e una polveriera sempre pronta a esplodere. In mezzo c’è lui, Caruso, rimasto con il cerino in mano. Non dovrebbe averne ancora per molto.