Basterebbe prendere esempio dal vicino di casa, un politico di razza, per evitare due anni d’agonia. Ma la Sicilia non è la Calabria, e Schifani e Galvagno non sono Occhiuto. Al di sotto dello Stretto la paralisi è stata certificata dal voto sui Consorzi di Bonifica: quel voto ha attestato che la maggioranza non ha i numeri per fare le riforme né per governare. A meno di non ripartire daccapo con la dazione di mance e contributi, questa terra rimarrà ferma ai franchi tiratori. E ai due presidenti impallinati: l’uno dal voto segreto, l’altro dall’inchiesta della Procura di Palermo.
Roberto Occhiuto ha dimostrato di essere diverso e l’altro ieri, di fronte a una stasi divenuta insopportabile, ha deciso di dimettersi e rimandare i calabresi al voto: “Non ce l’ho coi magistrati” ma “con questi che utilizzano l’inchiesta giudiziaria come una clava per indebolire o per uccidere politicamente il presidente della Regione”. Poi è passato alle spiegazioni: “Io penso che in un Paese civile nessuno debba dimettersi perché riceve un avviso di garanzia, nessuno. Però, nella mia amministrazione, oggi sta succedendo che è tutto bloccato: nessuno si assume la responsabilità di firmare niente”.
Da qui la necessità di dare una scossa, dimostrando che il senso delle istituzioni può prevalere – a volte – sul tornaconto personale. Occhiuto è indagato per corruzione: al centro dell’inchiesta ci sono i suoi rapporti con Paolo Posteraro, ex socio in affari e attuale capo segreteria del sottosegretario Matilde Siracusano (compagna di Occhiuto), destinatario di incarichi pubblici per oltre 550 mila euro. Gli inquirenti ipotizzano che tali nomine siano state agevolate da relazioni personali e istituzionali riconducibili al governatore. Secondo gli atti, Occhiuto avrebbe beneficiato di utilizzo di auto, pagamento di multe, cessioni societarie sospette e persino dell’acquisto simbolico di un’auto per la figlia a soli 50 euro, da una società che l’aveva pagata 13.500. Uno scenario che per certi versi somiglia a quello di Galvagno.
A cambiare però è la reazione: Occhiuto sceglie di dimettersi per non paralizzare una regione che, come la Sicilia, gode di salute precaria. Galvagno decide di trascinare le proprie vicende giudiziarie – ancorché sia in attesa del rinvio a giudizio – all’interno dell’agone politico. In un giochino che trova la sponda dei probiviri di Fratelli d’Italia, tenuti a un giudizio “di parte” sul suo operato. E mentre attorno cadono teste (come quella di Manlio Messina, fresco dimissionario di FdI), lui se ne va al matrimonio di Cuffaro jr nel giorno di via d’Amelio; fa l’elogio di se stesso e di quanto sia maturo; straparla di atti processuali (“Nessuna utilità personale”) che ammette di non conoscere fino in fondo; si offre di consegnare l’auto blu (dopo averla utilizzata in modo spregiudicato, secondo i magistrati, per ritirare il sushi o dare uno strappo alle amiche); e si prende la briga di trattare coi partiti della maggioranza per garantire l’approvazione della Finanziaria. Perché non è ancora il momento di dimettersi.
Di fronte a una carriera “bruciata”, continua a occupare il massimo scranno dell’Ars e a credere alla buonafede della sua “califfa”, che nel frattempo si è licenziata da portavoce. Ma è un presidente delegittimato e si vede: in aula non passa più una legge. Nemmeno di Serie C. I partiti si guardano con sospetto, ogni emendamento è fonte di tensione, e l’estate sta per scadere senza che il centrodestra sia riuscito a fare una sola cosa di quelle in programma. La settimana prossima sarà decisiva per le variazioni di bilancio, poi chissà.
Di questo quadro funesto il primo a risentirne è Schifani. Il presidente forte coi deboli, e debolissimo coi forti. Non è riuscito a revocare l’assessorato al Turismo alla Amata, perché i patrioti romani erano pronti a fargli la festa; ma ha saputo “cacciare” i subcommissari della A19 perché la Palermo-Catania – è lui che vigila sui cantieri aperti – era divenuta una trappola per topi. Ha sempre qualcuno nel mirino (un giorno il capogruppo del suo partito, quello dopo il Mpa di Lombardo, e così via), mentre la Sicilia si squaglia sotto il peso delle emergenze e a causa dell’assenza di visione che contraddistingue la legislatura. Niente.
Il governo non è riuscito neppure a far approvare la riforma sui Consorzi di Bonifica, pena la furia degli agricoltori; ma spera di tirare a campare mettendo d’accordo i deputati con qualche mancetta milionaria. Se questo non è tenere in ostaggio la Sicilia, il concetto di ostaggio non esiste. E mentre Occhiuto si è dimostrato un leader coraggioso, capace di separare le proprie grane giudiziarie dall’attività di governo, nell’Isola si fa ancora confusione tra i destini personali e il bene dei cittadini. Che ormai ne hanno letta di ogni e non si sorprendono più di nulla. Ma quando finirà questo teatro dell’assurdo? Ah, se la Sicilia avesse Occhiuto…