La votazione delle variazioni di bilancio ha generato un mostro. Forse Schifani è ancora convinto di godere della maggioranza di Sala d’Ercole, così, a bocce ferme, ha ribadito la propria soddisfazione: “Il senso delle istituzioni e la volontà di dare risposte concrete ai siciliani hanno prevalso. Proseguiamo con determinazione nel nostro impegno per una Sicilia moderna che continua a crescere”. In realtà, scorrendo fra le righe, manca il classico ringraziamento ai deputati del centrodestra. C’è solo una nota polemica verso le opposizioni, ree di aver fatto ostruzionismo; ma non una sola parola sul sostegno dei partiti – da Forza Italia a Fratelli d’Italia, passando per il Mpa di Lombardo – che hanno mandato in porto la manovra.
Perché è proprio in questi tre partiti che si nascondono i franchi tiratori – cresciuti rispetto al flop sui Consorzi di Bonifica – che non perdono occasione per mandare messaggi e affossare provvedimenti cari al presidente. Ignorarli, o far finta che si tratti di semplici capricci, sottopone la Sicilia – non il governo – a un rischio pressante: ridurre gli ultimi due anni di legislatura a un periodo di galleggiamento, a un’agonia che ai siciliani non serve. Continuare sulla falsariga delle ultime votazioni suona come una condanna nei confronti della terra delle mille emergenze, che andrebbe liberata dai frequenti ricatti (un po’ come ha fatto Occhiuto in Calabria) e che non può più sottostare alle beghe giudiziarie e politiche dei suoi massimi rappresentanti.
Galvagno, nel corso della manovra-ter, ha gettato la spugna: ha permesso a Schifani di prevaricare il parlamento con l’imposizione della ‘tagliola’, non si è fatto interprete dei sentimenti dell’opposizione, e non è riuscito nemmeno a concordare una strategia per venire fuori dall’impasse. Schifani, con la solita arroganza, ha annegato le tesi del segretario generale dell’Ars, Fabrizio Scimè; ha preteso di dettare i tempi ai deputati e, infine, è stato sconfessato dai membri della sua stessa maggioranza. Molti di loro non accettano un trattamento meno dignitoso di quello che palazzo d’Orleans riserva ai vari Sammartino e Cuffaro, che al momento rappresentano gli unici sostenitori leali.
Non è un caso che la norma sui laghetti artificiali, voluta dall’ex vice governatore leghista, abbia registrato il più alto tasso d’adesione da parte dei franchi tiratori (almeno 17). Schifani era atteso al varco e ha pagato pegno. Ma ignorare (o sottovalutare) l’esistenza del problema non fa che aggravarlo. Anche sui fondi per l’editoria – una legge sostenuta da giornalisti e pagnottisti sempre più addentro ai palazzi del potere – è finita con un’enorme pernacchia e la promessa di ripresentare il provvedimento alla ripresa dei lavori. Mentre per l’acquisto del palazzo di via Cordova per 13,5 milioni – un’operazione immobiliare che deriva dalla lunghissima questione, sempre aperta, sul costo delle locazioni passive – forse bisognerà attendere mesi.
È un fallimento su tutta la linea, che neppure lo stanziamento per i medici (allo scopo di abbattere le liste d’attesa) o per la gestione dei dissalatori, o per l’acquisto degli scuolabus, può mascherare. L’ultimo atto di ieri è stato il rinvio a settembre di un pacchetto di misure destinate alle infrastrutture (grandi e piccole) dei comuni: somigliavano tanto a delle mance territoriali. Se così non fosse stato, probabilmente, sarebbe arrivato il disco verde.
E invece è stato un buco nell’acqua: “Con la manovra-ter va in archivio una delle pagine più buie dell’Ars, ma nonostante il bavaglio alle opposizioni, messo con la vergognosa ‘tagliola’ mai prima d’ora applicata a Sala d’Ercole, il governo esce notevolmente ridimensionato – dice Antonio De Luca, capogruppo del M5s –. Lo dimostrano le numerose bocciature dell’esecutivo, che non è riuscito a portare a casa nemmeno il fondo mancette con le risorse a disposizione dei deputati della maggioranza. Schifani deve capire che all’Ars la strada per il suo governo è in salita. O porta in aula le norme che i siciliani aspettano, o può mettere in conto altre sonore batoste, visto che non controlla più gran parte della sua maggioranza”.
Un altro passaggio utile a stemperare le tensioni con l’opposizione riguarda la questione morale. I dibattiti sulla sanità e sul turismo. Che il presidente non ha alcuna voglia di sostenere (e ai quali non ha minimamente accennato). Vorrebbe dire mettere alla gogna i Fratelli di Sicilia, reduci da una serie di scandali che anche via della Scrofa ha guardato con delusione: da qui il commissariamento del partito ad opera di Meloni, l’emarginazione di Manlio Messina e il cambio di casacca di Auteri. Schifani è rimasto l’ultimo argine allo sgretolamento deciso dei patrioti: sarebbe bastato revocare l’incarico all’assessore Amata per innescarlo, ma il presidente della Regione aveva già troppi problemi, e non se l’è sentita di dare una delusione a La Russa & Co..
I rapporti con Lombardo e il Mpa – che non ci stanno ad essere considerati il brutto anatroccolo – sono ai minimi termini, quelli con Forza Italia non eccellono (ricordate lo scontro con Pellegrino durante il vertice di maggioranza?), con Pd e M5s non c’è mai stato dialogo. Non basta il sostegno di Cateno De Luca – sempre più vicino e più ascoltato negli ambienti della maggioranza – a dare continuità all’azione di governo. Né il ricorso agli assessori “tecnici” per il disbrigo delle pratiche più rognose. Perché in Assemblea non passa più nulla e il Consiglio dei Ministri pensa a impugnare il resto. Schifani avrà a disposizione un mese per affrontare il problema, o alla ripresa dell’attività parlamentare dovrà prendere atto che la rottura è permanente e prolungata. A quel punto non gli resterebbe che esplorare altre strade: la paralisi della Sicilia o le dimissioni.