Nemmeno in caso di rinvio a giudizio il presidente dell’Ars, Gaetano Galvagno, indagato per corruzione e peculato, dovrebbe dimettersi, «in virtù del principio della presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva. Poi ogni decisione dipende da valutazioni del partito, oltre che da scelte personali». L’ha detto il presidente della Regione, Renato Schifani, in un’intervista al quotidiano La Sicilia. Per il governatore, lo stesso vale per l’assessore al Turismo, Elvira Amata, «almeno finché non ci sia una sentenza di primo grado che accerti responsabilità per reati compiuti nell’esercizio delle funzioni di assessore. Io, per cultura, resto sempre garantista».
Ma il garantismo non può valere sempre. Se, come emerge dalle intercettazioni, l’auto blu diventa uno strumento quasi di piacere, più che di rappresentanza. O se la portavoce di Galvagno, Sabrina De Capitani, sceglie di dimettersi per sfuggire alle grinfie di un’inchiesta – anche mediatica – che la dipinge come una faccendiera abilissima a ottenere utilità, in cambio di contributi pubblici (da lei procurati). O se una delle contestazioni mosse alla Amata è la concessione di un posto di lavoro al nipote in una società di brokeraggio gestita da Marcella Cannariato, la moglie di Tommaso Dragotto, impegnata nel frattempo a ottenere commesse sempre più ricche dalla Regione (in cambio di eventi culturali di scarso peso e interesse). Dell’opportunità politica di certi comportamenti – al di là della loro rilevanza penale – Schifani non parla e non dice. Furbo.
Il 31 luglio la Procura di Palermo ha notificato a Galvagno l’avviso di conclusione delle indagini preliminari. In precedenza era toccato alla Amata. Così le opposizioni, dal Pd ai Cinque Stelle, hanno colto l’occasione per chiedere un dibattito urgente in Aula. Ma, per ora, Schifani ha scelto di non mettere bocca. Si è sottratto in ogni modo, provocando la paralisi in occasione della manovra-ter. Che è stata approvata, va da sé; ma ha fatto registrare lo sconquasso della coalizione.
La professione di garantismo nasconde ben altro: il rischio, qualora si decidesse per la revoca dell’incarico a Elvira Amata, di dover riaprire il valzer delle nomine. Galvagno ovviamente non si tocca, a meno che non sia lui, o Giorgia, o i probiviri del suo partito, ad accompagnarlo alla porta. Su un eventuale cambio ai vertici dell’assessorato di via Notarbartolo, la questione è diversa. Tutti i partiti sono in febbrile attesa: a cominciare dal Movimento per l’Autonomia di Lombardo che da tempo reclama la presenza in giunta di un secondo assessore, dopo Colianni.
Fra i tasselli che potrebbero muoversi – in entrata – c’è quello che riguarda il ritorno di Luca Sammartino all’Agricoltura (e ai rapporti con il Parlamento), nonostante il leghista non goda della giusta considerazione da parte del plotone dei “franchi tiratori”; mentre Forza Italia continua a non digerire la presenza dei tecnici Dagnino (Economia) e Faraoni (Salute). Se sposti una pedina rischi una reazione a catena, e questo Schifani non se lo può permettere.
Il leitmotiv del presidente è uno: Fratelli d’Italia non si tocca. Persino di fronte alle difficoltà più palesi. Il rapporto tra governatore e assessore al Turismo, ad esempio, non è sempre stato idilliaco. Nelle scorse settimane Schifani si era mostrato molto critico per la graduatoria dei film finanziati dalla Film Commission, la creatura gestita da un noto dirigente della ‘corrente turistica’, Nicola Tarantino: nell’elenco mancava il progetto dedicato a Biagio Conte, il missionario palermitano scomparso nel 2023. Una “dimenticanza” che aveva provocato irritazione a Palazzo d’Orléans. Ma il presidente scelse di soprassedere, e si impegnò a intervenire ‘fuori sacco’, garantendo il sostegno economico diretto da parte del governo per allungare di qualche posizione la graduatoria dei film finanziati.
Non era il momento di tradire la fiducia dei patrioti. Specie quella di Ignazio La Russa, che è stato il suo primo sostenitore, nel 2022, dopo la rinuncia forzata a Nello Musumeci. Neppure di fronte all’immagine sgualcita dell’Amata, bersaglio dell’inchiesta della Procura di Palermo, è arrivata una parola di biasimo. Niente. Troppo robusti i fili che portano a FdI. Uscito di scena Manlio Messina, rimane un debito d’onore che va colmato fino all’ultimo giorno della legislatura.
Ma la situazione è più precaria di così. E non è soltanto la presenza di Fratelli d’Italia a rendere il clima rovente. Il governatore, che ama esercitare un controllo diretto sulla macchina amministrativa, si ritrova prigioniero dei suoi stessi equilibri. I franchi tiratori che in Aula hanno già dato prova di indipendenza non sembrano intenzionati a rientrare nei ranghi; e una mossa falsa sulle nomine – non solo quelle di sottogoverno, ma soprattutto quelle in giunta – rischierebbe di trasformare le crepe in voragini.
Dietro il paravento del garantismo, dunque, c’è un calcolo politico: mantenere tutto com’è per non compromettere la tenuta della legislatura. Ma il prezzo è alto. L’immagine di un’Assemblea regionale guidata da un presidente sotto inchiesta e di una giunta con un assessore indagato pesa sul rapporto con i cittadini e alimenta un clima di sfiducia. E così, fra dossier giudiziari, fedeltà intermittenti e rivendicazioni di partito, l’orizzonte resta incerto. Non si vede, al momento, una via d’uscita che non passi da compromessi e rinvii. La Sicilia resta in bilico: governata da un presidente che, più che un regista, sembra un equilibrista, costretto a muoversi su un filo sottile, mentre sotto la rete di protezione comincia a sfilacciarsi.