C’erano una volta i murati vivi di Forza Italia, ma la svolta impressa dall’ultimo Consiglio nazionale, con la possibilità di eleggere in congresso i nuovi segretari regionali, li ha fatti riemergere dal torpore. Persino in Sicilia, dove il partito – ormai dal 2022 – è di “proprietà” di Renato Schifani e del suo storico collaboratore, Marcello Caruso.
Negli ultimi tempi i malesseri sotterranei si sono rivelati in più modi: ad esempio, nel corso delle votazioni all’Ars, in cui i “franchi tiratori” hanno finito per impallinare la riforma sui Consorzi di Bonifica e alcuni articoli della manovra-ter (dall’editoria ai laghetti artificiali). Non è un mistero – l’ha lasciato intendere anche Cuffaro, fedelissimo del presidente della Regione – che una fetta importante del gruppo parlamentare forzista remi contro. Non sopporta che alcune decisioni vengano calate dall’alto, né che il nucleo storico degli azzurri sia stato esautorato dall’azione di governo già al momento delle nomine.
Forza Italia, in Sicilia, non ha mai digerito l’assegnazione di due assessorati chiave come Economia e Sanità a due tecnici. La responsabile della Salute, Daniela Faraoni, ha dovuto “confessare” dopo mesi di far riferimento all’area forzista, al solo scopo di spegnere le illazioni sulla sua vicinanza al leghista Sammartino. Un passo avanti che non cambia la percezione né l’umore di chi si sente escluso da tutto.
Ma oggi il malpancismo di Forza Italia emerge in superficie, e non si ferma più ai “franchi tiratori” dell’Ars. A precisa domanda dei colleghi di Repubblica, l’eurodeputato Marco Falcone, già assessore al Bilancio del governo Schifani, ha rincarato la dose su una gestione che ha finito per condizionare l’operato del governo, spingendolo fino alla paralisi: “Sono pochissimi i deputati che pubblicamente si lamentano – ha dichiarato l’esponente politico catanese -, ma la maggior parte di loro si ritiene esclusa dalle scelte importanti e molti lamentano che la Regione non faccia proprio scelte importanti”.
Le beghe interne a FI non sarebbero una mera ricostruzione giornalistica, come ha spiegato qualche giorno fa Schifani: “Secondo me Schifani sbaglia a sottovalutare queste difficoltà molto evidenti – ha ribattuto Falcone -. Rischiamo di rappresentare una politica litigiosa e più impegnata nella distribuzione del potere che nella risoluzione dei problemi reali dei territori. Personalmente starei più attento”. E ancora, “il partito purtroppo oggi non esiste in termini di organizzazione, ma solo come sommatoria di voti”. Le responsabilità non possono non investire l’attuale coordinatore, Marcello Caruso: è “un buon funzionario di partito” ma “non è un leader. Lo sa lui, lo sanno gli organi nazionali del partito, lo sanno tutti”.
Falcone, oltre a ribadire che “oggi a Forza Italia Sicilia mancano la visione, il progetto, la caratura”, apre poi un altro capitolo. Quello che fa riferimento ai rapporti con il Movimento per l’Autonomia di Lombardo. FI ed Mpa a livello nazionale sono federati; è stato Lombardo ad essere accolto personalmente da Antonio Tajani, a Roma, per siglare l’accordo. Chissà cosa penserebbe il vicepremier dell’ostentata mal sopportazione da parte di Schifani, che nel corso di un dialogo “rubato” (era in visita al dissalatore di Porto Empedocle) minacciava di escludere gli autonomisti dalla giunta.
“Il Mpa è essenziale – ha detto Falcone nella sua intervista – Lo è da 20 anni, è stato sempre vicino a Forza Italia e quest’anno è stato determinante affinché Caterina Chinnici sedesse con me in Parlamento europeo. In maniera lungimirante Tajani ha voluto una federazione. Lombardo ha contribuito all’elezione di Musumeci e di Schifani alla presidenza della Regione. Per cui la riconoscenza non deve essere un valore del giorno prima, deve essere anche dopo”. La linea è distante dai comportamenti di Schifani e assume ulteriore forza in seguito all’intervento – pacato ma secco – di Giorgio Mulè: “Marco Falcone è una bandiera di Forza Italia. In questa intervista dice cose assolutamente condivisibili, le stesse che ripeto da tempo”, ha scritto sui social il vicepresidente della Camera.
Che a suo tempo – già dopo le Europee – aveva chiesto un confronto coi vertici per analizzare l’esito del voto e, soprattutto, gli strascichi di alcuni comportamenti. A partire dal caso di Edy Tamajo, all’epoca pupillo di Schifani. La sua campagna elettorale, fondata su un “marketing aggressivo” (per usare un’espressione commerciale), aveva contribuito a sfaldare il clima all’interno del partito. Ma all’indomani del voto, anche Tamajo – unico assessore forzista nella giunta di governo – è stato marginalizzato un passo alla volta, nel timore che potesse diventare un competitor interno per il 2027. Oggi, al netto dei bandi per le imprese che giocano a suo favore (in termini di consenso), la voce dell’assessore alle Attività produttive, all’interno di Forza Italia, non risuona più come prima. Le decisioni spettano ad altri.
Cioè a Renato Schifani e a Marcello Caruso, che non si sono ancora arresi all’evidenza di un cambio di passo. Quello “imposto” dalla famiglia Berlusconi, che vorrebbe vedere una nuova classe dirigente prendere le redini del partito e proiettarsi al centro. Con l’obiettivo di occupare uno spazio immenso e rappresentare – davvero – l’alternativa alla Meloni. Gli ultimi approdi (da Nino Minardo fino ai sindaci di Modica e di Ragusa) rischiano di rimanere delle operazioni elettorali con il respiro corto, se qualcuno non si assumerà l’onere del cambiamento.
I franchi tiratori sono la forma più deteriore di un malcontento ormai diffusissimo, che ha portato altri parlamentari dell’Ars – a cominciare dall’agrigentina La Rocca Ruvolo – a lamentarsi pubblicamente. Persino Stefano Pellegrino, capogruppo all’Ars e difensore di professione del governo, s’è beccato i rimbrotti di Schifani per aver chiesto l’implementazione di alcuni fondi a supporto dei comuni. Mentre Dagnino, l’assessore all’Economia, è stato invitato a occuparsi di amministrazione ché di politico non aveva nulla.
Ma è l’intervista di Falcone, quella sì in maniera decisa e definitiva, a rappresentare il punto di rottura. L’europarlamentare ha già annunciato la candidatura di un proprio rappresentante al prossimo congresso in cui tutto verrà ridiscusso. Schifani e Caruso hanno di fronte due possibilità: proseguire con una gestione monocratica del potere e di distribuzione delle poltrone; o aprire un varco anche per i “rivali” interni. La scelta sarebbe troppo scontata se non rischiasse di intaccare l’unica strategia in atto: ossia la ricandidatura dell’uscente. Viene prima Renato o Forza Italia?