Nessuno, ormai, ha voglia di schiodarsi dalla poltrona di governatore. Roberto Occhiuto, in Calabria, ha fatto la mossa: si è dimesso per dare una lezione a “politici di secondo piano” e “odiatori arrabbiati con la vita” – che hanno strumentalizzato le sue vicende giudiziarie per indebolirlo – e si è già ricandidato per un secondo mandato. Schifani, in Sicilia, da tre anni studia il modo per succedere a se stesso: qualche giorno fa ha dettato a Giorgio Mulè le coordinate per candidarsi (cioè raccogliere le firme), ritenendo che il centrodestra sia tutto dalla sua parte.
Ma anche altrove l’attaccamento alla poltrona è una moda diffusa: chiedere per informazioni a Luca Zaia, già dal 2010 alla guida del Veneto; o a Michele Emiliano e Vincenzo De Luca, reduci dal secondo mandato in Puglia e Campania. Il motivo? Lo spiega Antonio Polito, editorialista del Corriere della Sera: “Oggi forse nemmeno un ministro ha il potere di un presidente di Regione, figurarsi un qualsiasi schiaccia-bottoni di Montecitorio o di Bruxelles”.
La sua è un’analisi che parte da lontano, cioè dai due motivi che fanno propendere i politici locali a scegliere una carriera non lontana da casa. Polito parla di due rilevanti patologie. La prima è “l’anomala concentrazione di potere politico che si è accumulato nelle Regioni, pur in assenza di devolution o ulteriori gradi di autonomia”. E’ quella che ha consentito a taluni personaggi, da Antonio Bassolino allo stesso Zaia, di fuggire dalle cariche nazionali di governo per tornare alla casa madre. Anche il “nostro” Schifani conosce bene la questione, sebbene la candidatura a Palazzo d’Orleans, ispirata da Ignazio La Russa, possa essere derubricata a incidente di percorso: dovuto alla mancata riconferma di Musumeci e l’assenza di una vera alternativa.
L’ha raccontato nei dettagli il vicepresidente della Camera, Giorgio Mulè, su Repubblica: “Il 10 agosto 2022 (…) ricevetti una telefonata da Berlusconi, era in Sardegna. Fu diretto: “Giorgio, ma tu saresti disponibile per essere candidato?”. Dissi di sì. Dopo neanche due ore il Cavaliere richiamò dicendo che sul mio nome c’era l’accordo della coalizione”. E poi? “Successe che all’alba del 12 agosto si scoprì che il giorno precedente, quindi l’11 agosto, scadeva il termine per trasferire la residenza in Sicilia e poter essere candidato. E siccome io risiedevo in Umbria, sfumò la candidatura e si arrivò a Schifani”.
Ma adesso Schifani ci ha preso gusto. Lui è un intramontabile della politica, che ha trascorso nei palazzi gran parte della propria carriera. E’ passato dall’essere capogruppo di Forza Italia in Senato, a diventare il massimo inquilino di Palazzo Giustiniani, sede della presidenza del Senato (dal 2008 al 2013). Ha vissuto alterne fortune nei partiti: prima Forza Italia, poi il Popolo della Libertà, tre anni nel Nuovo Centrodestra di Alfano, fino alla riappacificazione coi berluscones. Sembrava sul viale del tramonto ed è stato ripescato, pur non avendo grosse competenze sotto il profilo “operativo”. Si era occupato da sempre di rappresentanza, governare non poteva essere il suo forte.
Da quando è alla guida della Regione siciliana, però, il cambio di passo non è mai arrivato. Solo qualche sfuriata e iniziative degne del miglior tappezziere per coprire le numerose magagne. Anche la sua missione di “parlamentarista convinto” è andata naufragando nei mesi. E persino quella di leader della coalizione è in discussione, come dimostrano i numerosi voti contrari da parte dei franchi tiratori, che hanno affossato alcune tra le (pochissime) riforme presentate in aula. Ecco: perché Schifani vorrebbe estendere il suo impegno per un secondo mandato?
Ha provato a spiegarlo qualche tempo fa in una intervista a Blog Sicilia: “Il mio è un impegno di doppia legislatura perché ho portato e sto portando avanti dinamiche di alta strategia innovativa, che naturalmente non si possono consumare in pochi anni. Riterrei un errore abbandonare questo percorso”. “Il mio – ha insistito – è un impegno difficilmente realizzabile in una sola legislatura, che presuppone tempi un attimo più ampi. Se ci si deve occupare seriamente della Sicilia occorrono, come minimo, dieci anni se non di più”. Ma in quel caso bisognerebbe chiedere l’applicazione del terzo mandato, magari fino a 87 anni; la stessa operazione che non è riuscita a uno capace come Zaia (che ha svolto tre mandati, ma ne vengono considerati due: il “tetto” fu recepito in Veneto solo nel 2015).
Rileggendo Polito, però, dietro questa “insistenza” potremmo anche azzardare un’altra motivazione: “Cacicchi a vita, sembra essere il loro programma. A molto potere corrisponde infatti poca alternanza, e questa è la seconda anomalia. I sistemi politici regionali sono «bloccati». È rarissimo che l’incumbent, chi cioè detiene la maggioranza, venga battuto alle elezioni. Anzi, le opposizioni un po’ alla volta svaniscono, si frantumano e finiscono aspirate un pezzo alla volta dentro il sistema di potere”. E questa – in effetti – è l’esatta rappresentazione di quanto potrebbe accadere anche in Sicilia. In cui l’opposizione, già sgonfia, ha perso un pezzo della propria identità: Cateno De Luca.
La permanenza a vita, anche quella ha i suoi svantaggi: “Non è in salute un sistema politico in cui il comportamento elettorale della gente è prevedibile o scontato, e l’opposizione è flebile o irrilevante – scrive l’editorialista del Corsera -. Potrà anche essere in parte merito della bravura di chi governa da tempo. Ma è buona massima ricordare che «se il potere corrompe, il potere assoluto corrompe assolutamente» (Lord Acton). In fin dei conti la democrazia è un metodo inventato per assicurare il ricambio delle classi dirigenti. Se non cambiano mai, c’è qualcosa che non va. Lo dimostra il fatto che i «pascià» semi-indipendenti che governano le Regioni non partecipano quasi per niente alla vita politica nazionale, se non per distinguersene o addirittura dileggiarla”.
Ce ne sono un paio di protagonisti siciliani che non hanno mai messo radici nel continente, se non in alcune fasi (molto brevi). Anche loro sono due personaggi inossidabili, che riescono ancora a racimolare consenso (e che consenso). Sono gli ex governatori Totò Cuffaro e Raffaele Lombardo. Uno ha provato a estendere l’Opa della Dc Nuova a tutta Italia e a tutti i simboli democristiani, con risultati fin qui poco tangibili. L’altro si è assicurato la federazione con Forza Italia per garantire a Forza Italia – e a chi sennò – un riscontro elettorale più ampio nell’Isola (s’è già visto con l’elezione di Caterina Chinnici in Europa). Manniniani, figli di un’altra epoca, in cui hanno persino governato. Eppure così di moda anche adesso, nonostante le batoste giudiziarie (con esiti differenti) e lo scontro che ne caratterizza il vissuto. Essere l’un contro l’altro armato è un elemento che consente a entrambi di sopravvivere al tempo e alle intemperie. E di continuare a essere decisivi in un contesto che hanno contribuito a creare. La Sicilia è davvero immutabile.