Forza Italia in Sicilia è ormai ridotta a un teatrino di questuanti. Prima convocati tutti insieme, poi ricevuti singolarmente, infine di nuovo radunati in gruppo: ma solo per essere messi in riga da Antonio Tajani in videocollegamento. L’ultimo summit all’Ars, con il segretario nazionale in diretta da Roma, è servito a poco: a rinsaldare il governatore Schifani, certo ormai di potersi ricandidare per un bis a Palazzo d’Orléans, e a infliggere l’ennesima reprimenda a un gruppo parlamentare silente e diviso.
In sala c’erano i deputati, il presidente della Regione e il coordinatore Marcello Caruso. Il vicepremier ha voluto ribadire alcune linee di comportamento. Ha ribadito «il valore di un partito aperto al confronto democratico», ricordando che «esistono sedi e tempi dedicati al dibattito interno, come l’imminente Congresso Regionale, dove ciascuno potrà presentare le proprie proposte e idee con lealtà e trasparenza». E ancora: «Il continuo scambio di comunicazioni a mezzo stampa senza un vero dibattito ed un reale confronto, non è utile al partito e tradisce la fiducia dei nostri iscritti, che meritano chiarezza e coesione».
Parole che molti hanno letto come un avvertimento diretto a Marco Falcone, ex assessore all’Economia che nei giorni scorsi aveva rilasciato un’intervista a Repubblica per suggerire a Schifani di non sottovalutare i problemi. Ma anche a Giorgio Mulè, il vicepresidente della Camera che non nasconde di essere disponibile a correre per la Regione nel 2027. Ma Mulè, anziché smarcarsi, ha rilanciato: «Sottoscrivo ogni parola espressa dal segretario Tajani, serve un partito aperto al confronto democratico». Tradotto: non faccio passi indietro.
Intanto Schifani incassa. Il collegamento con Tajani, più che un richiamo al dibattito interno, si trasforma nella benedizione che il governatore attendeva. Dopo un’estate segnata da polemiche e sospetti, e dopo settimane in cui aveva sentito i deputati uno alla volta – gli stessi deputati che lo avevano condannato in aula, facendo ricorso al voto segreto – Schifani si ritrova con un’investitura pubblica. Un modo per zittire i mugugni e blindare la prospettiva del bis. Eppure il malessere resta. All’Ars, il gruppo forzista sembra evaporato. Quando c’è da difendere i territori, tace. Quando c’è da alzare la voce sugli assessori tecnici – Dagnino all’Economia e Faraoni alla Sanità – balbetta. Quando si vota, i franchi tiratori proliferano: dalla riforma dei Consorzi di bonifica alle norme sull’editoria, fino ai contributi per i laghetti artificiali.
Appena cala il sipario su Sala d’Ercole, però, i deputati tornano agnellini. Schifani governa come un feudatario circondato da vassalli. La linea politica non esiste: solo una processione di suppliche individuali. Ciascuno chiede la sua mancetta, il suo micro-intervento, un favore da spendere in provincia. Ieri per i fondi sui rifiuti, domani per gli Asacom. È il rito della contrattazione privata, che sostituisce la politica e annulla il confronto collegiale.
Chi prova a rompere il silenzio – la più silenziosa di tutti è sempre l’europarlamentare eletta con oltre 90 mila preferenze a Bruxelles, cioè Caterina Chinnici – resta fuori dal coro. Marco Falcone, ormai in rotta con l’area governativa, continua a lanciare fendenti. Mulè da Roma punge e provoca, fino al caso del film su Biagio Conte. Tommaso Calderone chiede trasparenza nei rapporti tra politica e manager sanitari. Ma sono voci “forestiere”: non appartengono al gruppo blindato di Sala d’Ercole.
Il congresso regionale dovrebbe essere la sede del confronto, almeno sulla carta. Ma l’aria che tira è quella del fatto compiuto: la candidatura di Marcello Caruso alla segreteria, maldigerita da Falcone che lo aveva bollato come un “funzionario”, è già stata avanzata. Intanto riparte la stagione del tesseramento, con platee gonfiate e pacchetti da distribuire. A Ragusa il ritorno di Nino Minardo, ex leghista, porta in dote numeri – è appena arrivata una valanga di adesioni nella città capoluogo – e organizzazione. Ma invece di placare i conflitti, rischia di esaltarli. Perché un partito già attraversato da correnti e rivalità si ritrova a gestire nuovi equilibri fragili, con il rischio di implodere.
Nel frattempo, Schifani si blinda dietro i suoi due scudi. Alessandro Dagnino e Daniela Faraoni, tecnici in giunta, hanno assunto il ruolo di guardie del corpo politiche. Parlano al posto dei deputati, bacchettano chi critica, negano persino l’evidenza pur di difendere l’indifendibile. La Faraoni tenta di giustificare i ritardi e le falle della sanità, mentre la nuova rete ospedaliera rischia di essere bocciata in commissione. Dagnino ha corretto persino Mulè, spiegando che non si poteva attingere al fondo di riserva per finanziare il film su Biagio Conte. Un segnale chiaro: il governo regionale risponde più ai tecnici che ai parlamentari.
E così il partito che in Sicilia continua a fare incetta di voti appare sempre più come un guscio vuoto. La pattuglia all’Ars non detta l’agenda, non indirizza le scelte, non costruisce una linea politica. Subisce. Attende. Si limita a recitare la parte dei fantasmi, che compaiono solo nelle urne segrete e nelle cronache locali. Mentre i pochi dissidenti – Falcone, Mulè, Calderone – restano gli unici a ricordare che un partito, se vuole dirsi tale, deve discutere, litigare, decidere. Non solo accodarsi al capo. Se questo è un partito.