In Sicilia il Partito Democratico riesce sempre a superare sé stesso. Non bastavano i dati impietosi alle ultime tornate elettorali, né la marginalità politica in Assemblea. Mentre a Roma la segretaria Elly Schlein punta sul “campo largo” per conquistare qualche bandierina, nell’Isola i dem celebrano feste dell’Unità che sanciscono divisioni, risse verbali e veleni personali.

L’ultimo episodio alla Festa dell’Unità di Rosolini, “casa” del segretario provinciale Piergiorgio Gerratana, che dal palco non ha risparmiato fendenti al deputato regionale Tiziano Spada, da poco eletto sindaco di Solarino. “Non possiamo continuare a subire la rappresentanza di chi ha distrutto in maniera scientifica l’immagine del PD” ha tuonato Gerratana, senza citarlo mai direttamente. Ma allusione più chiara non poteva esserci. Spada, da par suo, ha replicato con toni da resa dei conti: “Gerratana ha zero carisma, sbaglia ogni uscita e non è in grado di dettare alcuna linea al partito. Io sarò candidato all’Ars a prescindere da lui e dai suoi quattro amichetti”. Per dare più sostanza alle sue parole, ha tirato in ballo un asse di sindaci (che comprende Paolo Amenta, massimo rappresentante dell’Anci) e amministratori locali che lo sosterrebbero come blocco elettorale.

Il congresso provinciale di Siracusa era già stato segnato da divisioni feroci, con lo stesso Spada in prima linea contro Gerratana. Ma la verità è che tutto il Pd siciliano non se la passa meglio. L’elezione-bis di Anthony Barbagallo a segretario regionale – avvenuta tra vizi procedurali, ricorsi e sospensioni – ha prodotto strappi difficili da ricucire. E come dimenticare il teatrino della candidatura di Antonello Cracolici? Schlein è apparsa silente sull’ipotesi di sostenerlo come figura di sintesi. Lui aveva fatto un passo avanti, salvo poi farsi da parte tra mille distinguo. Un dietrofront che ha lasciato dietro di sé malumori e un congresso regionale che per poco non degenerava in rissa.

Ma le spaccature non nascono solo dai congressi. Già nei mesi scorsi Barbagallo aveva puntato il dito contro gli stessi deputati regionali del suo partito, rei di essersi allineati al centrodestra nella spartizione delle cosiddette mance (arrivò persino a minacciare un esposto alla Procura e alla Corte dei Conti). Un atto d’accusa pubblico e sonoro che non ha prodotto alcuna svolta. È passato del tempo, ma il gruppo parlamentare dell’Ars non ha mai avuto un guizzo in senso opposto. Anzi, anche in queste settimane, mentre si discute di distribuire prebende per 35 milioni di euro all’interno della manovra-quater in discussione a Palazzo dei Normanni, il Pd non ha battuto ciglio. Si è allineato a quanto deciso in conferenza dei capigruppo, cioè non ha deciso. Sta con il più forte, e la prospettiva di poter garantire trecentomila euro a ogni deputato di opposizione si rivela più allettante di qualsiasi battaglia identitaria.

Anche quella “questione morale” il rigore della sinistra è venuto meno. Ha lasciato spazio a un garantismo lassista che è stato utile al presidente dell’Ars Gaetano Galvagno e all’assessore regionale al Turismo, Elvira Amata, per sopravvivere allo scandalo delle intercettazioni pubblicate dai giornali e rimanere appiccicati alla poltrona. Il Pd, in sostanza, ha smesso di fare opposizione al governo, non protesta contro la manifesta impunità esibita dai patrioti, a stento si indigna per la questione di Gaza.

Le feste dell’Unità hanno assunto il sapore di regolamenti di conti. A Siracusa, oltre a Spada, hanno disertato Mario Bonomo e Gaetano Cutrufo, capicorrente dell’area Schlein. A Palermo, la segretaria cittadina Teresa Piccione – già sconfitta da Faraone in una battaglia all’ultimo sangue per la segreteria: era il 2018 – ha pensato bene di non invitare Barbagallo, osteggiato da mezzo gruppo parlamentare. Lui si rifarà a Trapani, dove il fedelissimo Dario Safina gli ha preparato un palco comodo e un dibattito sulla sanità targata Schifani. Nel frattempo – altra contraddizione che le supera tutte – il partito ha trovato anche lo spazio per ospitare al Festival dell’Unità di Palermo Maurizio Scaglione, uomo degli affidamenti diretti (per circa mezzo milione) e degli inciuci più spudorati con Palazzo d’Orleans, presentato però come autore di un libro antimafia. Ossimori siciliani. Subito dopo la messinscena del pagnottista, arriverà il cerotto: un tavolo intitolato “La mafia come priorità” con la partecipazione del presidente della commissione antimafia dell’Ars Cracolici e del procuratore di Palermo, Maurizio De Lucia.

Per coprire le fratture, inoltre, la segreteria regionale ha tirato fuori dal cilindro la Conferenza Programmatica Itinerante “La Sicilia che Vogliamo – Idee, Persone, Futuro”, una specie di pellegrinaggio laico che da Trapani porterà i dem in tutte le province, per concludersi a Palermo il 15 maggio 2026, festa dell’Autonomia Siciliana. Barbagallo parla di “visione di futuro fondata sulla giustizia sociale e sulla lotta alle mafie”, D’Arrigo (coordinatore della segreteria regionale) rilancia un “percorso larghissimo” che dovrebbe includere M5s, Avs, La Vardera e perfino Italia Viva. Safina ci mette il timbro finale: “Un cantiere di idee e partecipazione”. Belle parole, certo. Ma l’impressione è che si tratti più di una pezza retorica che di un progetto vero. Perché se i dem non riescono a stare insieme neppure tra loro, è difficile immaginare come possano costruire un campo largo con mezzo arco costituzionale.

La realtà, per ora, è quella di un partito spaccato in correnti, gruppi di potere, cricche e feudi personali. A Siracusa come a Palermo, a Catania come a Messina, la regola è sempre la stessa: ognuno tira acqua al proprio mulino e il segretario regionale sopravvive tra ostilità interne e assenze pesanti. La contraddizione della Festa dell’Unità fotografa meglio di qualsiasi analisi il paradosso del PD siciliano: un partito che si proclama unito mentre affila coltelli, un partito che dovrebbe costruire l’alternativa al centrodestra ma continua a consumarsi in faide intestine. Se questo è il punto di partenza, il 2027 appare lontano anni luce. Non tanto per la data sul calendario, quanto per la distanza che separa i democratici siciliani dall’essere percepiti come forza credibile di governo.

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