Era stato costretto a lasciare l’assessorato all’Agricoltura per una decisione della magistratura.

Ora, regolati i conti con la legge, Sammartino torna al posto che era suo, che di fatto non aveva mai lasciato avendolo dato in comodato d’uso ad un uomo di sua fiducia, sicuramente competente, perché lo utilizzasse comunque secondo le sue direttive e glielo restituisse in ordine e ben aerato.

Ha potuto disporre così perché Sammartino è l’uomo forte della Lega e perché delle istituzioni si può disporre come di roba propria.

Questa operazione, una modesta vicenda interna ai partiti senza nessun interesse per i siciliani, dovrebbe rafforzare Schifani e rendergli più agevole la ricandidatura.

Dovrebbe poi realizzare un’alleanza, un processo già avviato, pare, tra la Lega e la nuova Democrazia cristiana, per parare lo strapotere di Fratelli d’Italia.

Probabilmente anche a tale scopo Sammartino, prima di tornare alla guida dell’assessorato, è passato da Pontida, dove, insieme a quelli che indossano l’elmo con le corna, ha letto uno slogan nuovo, imprevisto e accattivante, “liberi e forti”. Era l’inizio dell’appello di Luigi Sturzo agli italiani nel 1919, al momento della formazione del Partito popolare.

Come sia finito sul pratone di Pontida, tra Salvini e Vannacci, è un mistero, o piuttosto la prova della assoluta inutilità di richiamarsi a valori, a idee, a storie, a tutta la paccottiglia del passato che non trova più spazio alcuno nella politica di oggi.

Si può essere razzisti, reazionari, amici di Trump e di Putin, si può immaginare un mondo al contrario e invocare la Decima MAS e insieme richiamarsi senza imbarazzo né rossore al federalista, al regionalista, all’europeista, al cattolico popolare Sturzo, che fu costretto all’esilio dal fascismo.

Eppure, potrebbe capitare in Sicilia di vedere lo scudo crociato accanto all’effigie di Alberto da Giussano, con l’obiettivo di arrivare primi nelle elezioni regionali e di garantire la presenza nelle liste per quelle nazionali di qualche esponente del partito di Cuffaro.

Sarei tentato di dire “non è vero” o magari solo di sperarlo. Ma di tutto questo, a Sammartino e non solo a lui, cosa può interessare? Il golden boy catanese, l’uomo che in tutte le elezioni ha preso un numero spropositato di preferenze, che ha cambiato cinque partiti, rimane indenne dal peso della coerenza, del rispetto di se stessi, delle idee. Roba che forma un bagaglio ingombrante, tarpa le ali, rende difficile saltare da un ramo all’altro di alberi che danno frutti completamente diversi.

Nel suo girovagare, per più di due anni Sammartino è stato anche nel Partito democratico. Ai tempi di Renzi aveva fiutato l’opportunità, aveva pensato che quello fosse il taxi più comodo e sicuro e lo aveva riempito dei suoi voti.

Quando arrivò a Catania venne accolto da una manifestazione entusiasta alla quale presero parte quasi tutti i maggiori esponenti del Partito democratico di Sicilia e alcuni anche di Roma. Nelle liste di quel partito venne eletto all’Assemblea regionale e fu perfino candidato a guidare il gruppo parlamentare. Poi, quando Renzi perdette lu ramu e lu stagnu, il nostro, per sua fortuna rimasto indenne da qualunque contaminazione ideale – a volte non mi rendo conto che devo andarci piano con questa roba, per evitare di apparire datato e patetico – scorse un altro taxi, sul quale salì con lo stesso bagaglio di voti e con disinvoltura e leggerezza per andare dritto al governo della Regione.

Ora ci torna, ancor più forte di prima perché è stato perfino decorato da un infortunio giudiziario, sicuramente ordito da giudici comunisti.

E ci torna, così almeno pare, per puntellare l’incerta posizione di Schifani. Che poi vai a vedere che succede da qui alle prossime elezioni, quanti altri giri di valzer, salti della quaglia vi saranno.

Ci torna, come abbiamo già detto, anche per garantire l’alleanza con la nuova Democrazia cristiana. Giusto la nuova. Ed io continuo a non crederci. Che se mi venisse in mente quella che conobbi, con tutti i suoi limiti e difetti, griderei allo scandalo.

Alla fine, dopo aver raccontato questa amena storiella, che in parte mi amareggia, in parte mi diverte, che di sicuro non ha nessun riferimento ad una sola questione vera della Sicilia, mi sorge il dubbio che al di là dei toni un po’ saccenti e un po’ arroganti, come è suo solito, Calenda non aveva tutti i torti. A far governare la Sicilia a gente non siciliana ci aveva pensato nella seconda metà dell’800 Leopoldo Franchetti.

Naturalmente era una ipotesi un po’ razzista e nessuno pensa di riproporla. Ma uno scuotimento, qualcosa che costringa a capire quanto dannosa abbia finito per essere l’Autonomia per questa terra, sarebbe proprio sbagliato?