La rincorsa di Matteo Ricci nelle Marche si è fermata molto prima del traguardo. Doveva essere la prova generale di un centrosinistra competitivo, è diventata l’ennesima fotografia di un campo largo che largo non è. Il candidato Pd, bruciato da un’indagine deflagrata in campagna elettorale e tradito dagli alleati 5 Stelle (al 5%, ma non è una novità alle Regionali), non è mai riuscito a entrare davvero in partita. Il centrodestra, compatto e solido, ha vinto facile. Uno schema che suona familiare anche in Sicilia, dove l’opposizione non si è mai nemmeno provata a costruire.
Perché qui, oltre alle dichiarazioni di facciata, non c’è un solo elemento che deponga a favore dell’unità. Il Pd, che dovrebbe trainare il fronte progressista, è un partito più spaccato che mai. La cartolina delle ultime Feste dell’Unità racconta assenze eccellenti, a partire da quella del segretario Anthony Barbagallo a Palermo. Dice di non aver potuto partecipare per impegni pregressi, ma il segnale è devastante. In Sicilia c’è una segreteria, ma due gruppi parlamentari; due linee politiche; due mondi che non si parlano.
Persino due “antimafie”: da un lato il pagnottismo di Maurizio Scaglione, editore de ilsicilia.it e accumulatore seriale di incarichi da parte della pubblica amministrazione (per lo più affidamenti diretti), invitato a presentare libri sull’antimafia nonostante le sue acrobazie nei palazzi; dall’altro un veterano come Antonello Cracolici, che annuncia l’audizione dei vertici dell’Asp di Palermo dopo l’ennesimo scandalo di corruzione. Due volti inconciliabili della stessa medaglia.
Il Pd, però, è manchevole soprattutto sulla “questione morale”. Troppi silenzi, troppe complicità. Non è un caso che sull’affaire Ast – la nomina di Luigi Genovese, figlio di Francantonio e curriculum modesto, alla guida dell’azienda regionale dei trasporti – non si sia alzata una voce. Il silenzio assordante dei democratici – sommato ai pochi mugugni quando è deflagrata l’inchiesta su Galvagno e Amata e di fronte alla spartizione delle mance a Sala d’Ercole – è la prova plastica di un partito incapace di incarnare l’alternativa.
E i 5 Stelle? Non va meglio. Nelle Marche hanno dimostrato quanto sia difficile per loro spendersi fino in fondo su un candidato Pd. In Sicilia la musica è la stessa: alle elezioni locali e regionali i contiani arrancano, incapaci di trainare la coalizione. E di fronte al tentativo, neanche abbozzato, di un percorso comune alle prossime Regionali, si aggrovigliano attorno a scarne dichiarazioni di principio. Preludio di nuove e dolorose sconfitte.
Il guazzabuglio del campo largo si completa con gli outsider. Cateno De Luca, dopo mesi di proclami, si è sfilato per convenienza. E’ passato armi e bagagli nel centrodestra (oggi appoggia Occhiuto, di Forza Italia, in Calabria). Ismaele La Vardera, ex Iena diventato deputato, si accende a intermittenza: un giorno combatte le staccionate di Mondello, quello dopo rincara la dose sulla sanità. Una fiammata populista ogni tanto, però, non basta a costruire un fronte alternativo.
Eppure le occasioni non mancherebbero. Oltre all’affaire Ast, l’Assemblea regionale si appresta a varare l’ennesima manovrina: sono in palio una valanga di milioni (35?) per interventi infrastrutturali riservati ai comuni, oltre a un ulteriore tesoretto (25?) di cui non si conosce l’esatta destinazione. È la vecchia logica del carrello della spesa, quella che trasforma i bilanci in fiere della prebenda. In passato i maxi-emendamenti hanno garantito a ciascun deputato il proprio gettone per il collegio. Accade anche oggi, ma con una differenza: l’opposizione non fiata. Troppo rischioso rinunciare a una fetta del banchetto…
Intanto la cronaca offre spunti che altrove sarebbero munizioni preziose: l’inchiesta della Procura di Palermo che ha travolto il presidente dell’Ars Gaetano Galvagno e l’assessora al Turismo Elvira Amata; i colpi di mano del governo Schifani sulle nomine; la rimodulazione della rete ospedaliera che ha buttato nello sconcerto i sindaci (anche di centrodestra) ed è in attesa del verdetto romano. Eppure dal centrosinistra, che dovrebbe cavalcare la questione morale, arrivano solo sussurri. O qualche indignazione estiva, buona per un titolo sui giornali ma destinata a spegnersi nel giro di 24 ore. Il risultato è che maggioranza e opposizione finiscono per specchiarsi l’una nell’altra.
Schifani governa distribuendo incarichi e risorse, gli altri osservano senza disturbare. Ogni tanto recitano la parte dei giustizieri, ma la sera tornano a casa in silenzio. Così il campo largo resta un’invenzione lessicale, utile per i talk show ma privo di sostanza nei territori. Nelle Marche Ricci ha perso perché non è riuscito a trovare un amalgama. In Sicilia l’amalgama non è mai nato. Il Pd si divide, i 5 Stelle arretrano, De Luca si sfila, La Vardera lampeggia. Chi resta? Nessuno. Un’opposizione che non esiste è la miglior garanzia per il governatore. E infatti Schifani può dormire sonni tranquilli. La strada verso il bis è già spianata.