Nello stillicidio di queste ore, e in attesa di un vertice di maggioranza che faticherà a ricucire lo strappo, il dato politico inconfutabile è che Renato Schifani non gode più della fiducia di Fratelli d’Italia. Le avvisaglie, all’indomani della conferma di Salvatore Iacolino alla Pianificazione strategica, c’erano tutte. Ma in aula, alla prova della manovra-quater, sono diventate plastiche: non solo i patrioti avrebbero usato il “voto segreto” (le smentite di rito fanno parte del gioco) per infliggere una coltellata alle ambizioni del governatore; ma sono rimasti in aula per dare prova di responsabilità e assumersi il merito delle poche norme approvate. Sottolineando, persino, la pavidità di chi ha preferito abbandonare i lavori (Lega, Dc e Forza Italia): “Se altri partiti della maggioranza invece di scegliere l’Aventino fossero rimasti, probabilmente sarebbero stati approvati più articoli. Attribuire a Fratelli d’Italia 17 franchi tiratori è una mistificazione della realtà”.
Lo scontro plateale fra il capogruppo Assenza e il forzista Intravaia (ex FdI) è solo l’ultima goccia. Ma Schifani ha ben altre preoccupazioni. Qualche giorno fa era stato il commissario regionale Sbardella a metterlo in guardia dai prossimi “giorni infuocati”. E lo stesso governatore – per superare l’impasse – sembrava dovesse volare a Roma per ricevere le rassicurazioni che da tre anni lo tengono a galla: quelle del presidente del Senato, Ignazio La Russa (fu lui a sceglierlo da una terna di nomi proposta da FdI a Berlusconi). Non è accaduto. E non è chiaro se l’incontro – noto ai giornali – sia saltato per volontà dell’uno o dell’altro. Farebbe tutta la differenza del mondo.
Il fatto nuovo è questo: Fratelli d’Italia non segue più Schifani. Il partito della premier non sembra più disposto ad avallare una gestione amministrativa verticistica, che nemmeno sulle poltrone più calde (vedi il Direttore generale dell’Asp di Palermo o il Direttore sanitario dell’Asp di Catania) tiene in debita considerazione il parere dei meloniani. E’ cambiato molto, quasi tutto, rispetto ad alcuni mesi fa, quando il presidente della Regione decise di fare un passo indietro persino di fronte all’insolenza e alla volgarità di certe dichiarazioni: come quella di Manlio Messina, ex vicecapogruppo di FdI alla Camera, che lo accusò di non saper leggere le carte sull’affare Cannes.
Ma per tornare ai giorni nostri, Schifani ha graziato un paio di volte l’assessore al Turismo Elvira Amata: innanzi tutto, confermandola nel ruolo di governo nonostante la richiesta di raccomandazione rivolta a Marcella Cananriato, alias lady Dragotto, per far assumere il nipote in una società di brokeraggio (episodio che porterà la Procura di Palermo a iscriverla nel registro degli indagati per corruzione); poi, per aver permesso a una commissione valutativa della Film Commission, designata dal dirigente Nicola Tarantino, di escludere il film dedicato alla vita di Biagio Conte dai finanziamenti regionali (il resto è storia recentissima).
Schifani – era il battesimo della legislatura – aveva anche acconsentito a un paio di eccezioni nella composizione della giunta. Dopo aver spiegato che avrebbe nominato solo assessori-deputati, da via della Scrofa partì una richiesta di deroga per Francesco Scarpinato ed Elena Pagana: il primo, figlio della corrente turistica; la seconda, moglie dell’ex assessore Razza. Entrambi bocciati nelle urne, furono accolti in giunta senza toni trionfalistici (specie da compagni di partito, come Assenza e Savarino, che speravano legittimamente in un posto al sole). Schifani ha resistito alla tentazione di liquidare lo stesso Scarpinato dopo i fattacci di Cannes (compreso l’affidamento diretto di 3,7 milioni alla Absolute Blue) e a seguito del rapporto quasi-privilegiato con il sindaco di Messina Cateno De Luca, ai tempi un oppositore feroce di Renato nostro.
Nei confronti di Scarpinato perse le staffe più volte, ma dopo la furia è sempre arrivato il perdono (e Schifani non è solito concederne). Il presidente aveva temporeggiato persino sulla vicenda di Ferdinando Croce, poi costretto a dimettersi dall’Asp di Trapani dopo lo scandalo dei referti istologici in ritardo. E giusto qualche settimana fa, a Ragalna, si era presentato al cospetto di La Russa per continuare a coltivare un’amicizia proficua, espressione – anche – di una legittima ambizione: essere ricandidato. Non aveva messo in conto, Schifani, cosa sarebbe potuto accadere nei giorni seguenti. Le nomine, la manovrina, la Caporetto.
Pensava di aver trovato un alleato fedele in un altro meloniano di ferro, un po’ debilitato dalle inchieste; ma anche con Galvagno, adesso, c’è maretta. “Sembra essere impazzito: non è la persona che credevo che fosse”, è il commento di Schifani, riportato da ‘La Sicilia’, in seguito ai fatti di giovedì. Una reazione indotta dal comportamento del presidente dell’Assemblea, che in aula ha punzecchiato il governo (nella persona dell’assessore Dagnino) ed elogiato senza mezzi termini – accantonando la sua funzione di arbitro – le scelte dei patrioti e del Mpa. Cioè i due fustigatori dell’esecutivo. Galvagno, che ha smentito le ricostruzioni giornalistiche, ha però trovato il tempo e lo spazio per un appunto: “Il mio rapporto con il presidente della Regione è ben solido, ma se invece in queste ore fosse cambiato, ne prenderò atto solo quando mi verrà manifestato dal diretto interessato”.
Non tira una bella aria, ma questa volta neanche La Russa potrà fare miracoli. Al massimo potrà metterci una pezza e garantire che FdI prosegua nell’azione di governo, senza sancire la spaccatura dell’appoggio esterno (già ipotizzato da ambienti vicini al gruppo parlamentare). Ma non è chiaro quali margini di manovra possa permettersi il presidente del Senato. La Meloni, nelle ultime settimane, ha manifestato una profonda insofferenza per lo stato dei fratelli in Sicilia. Dal caso Auteri alle dimissioni del Balilla, dall’inchiesta della Procura di Palermo su Galvagno e Amata fino all’insediamento di Sbardella al posto dei due ex coordinatori, troppi eventi hanno inficiato l’immagine pubblica dei patrioti e la premier non può mostrarsi complice di questa deriva.
Chi ha deciso le sorti del partito nell’Isola, prima Messina poi lo stesso La Russa, hanno contribuito a questo scenario da Vietnam. Hanno portato FdI ad allontanarsi progressivamente dal baricentro della coalizione, l’hanno spinto in aperto contrasto con Schifani e con il suo “cerchio magico” (a partire dal rivale numero uno nei territori: Sammartino). Hanno portato un gruppo di amici e protettori a trasformarsi in un clan di nemici e detrattori. Ripartire da queste basi per imporre il bis dell’uscente, francamente, appare un eccesso. Un atto di fede privo di logica. E allora, da dove ricominciare?