Renato Schifani prova a seguire il solco di Giovanni Paolo II. Non nelle opere di misericordia, ma nella frase che rese celebre il nuovo Papa affacciato su piazza San Pietro: “Se mi sbaglio, mi corrigerete”. Solo che il governatore, più che cercare correzioni, sembra chiedere compassione. Un gesto di comprensione da parte di quella stessa maggioranza che, in realtà, non lo sopporta più (e che mai e poi mai – al netto del vertice atteso lunedì – potrà riproporlo per un bis).

Giovedì scorso l’Ars gli ha inflitto una delle peggiori umiliazioni della legislatura: diciassette articoli della manovra-quater sono stati bocciati a colpi di voto segreto. Una vera e propria Caporetto politica (definizione introdotta, non a caso, dal capogruppo di Fratelli d’Italia: Giorgio Assenza). L’aula, di fatto, gli ha tolto la fiducia. I patrioti non l’hanno seguito (anzi, l’hanno sbeffeggiando), gli Autonomisti di Lombardo si sono defilati, e la coalizione di centrodestra si è mostrata per quella che è: una somma di fazioni in lotta fra loro, unite solo dalla convenienza del momento. Persino Galvagno, delegittimato dalle inchieste e dalla vergogna di certi scandali, è salito in cattedra per fare le lezioncine al governo e ai deputati di Forza Italia, rei – a suo dire – di non sostenere la manovra.

Ma Schifani, invece di prenderne atto, ha scelto di minimizzare. Ieri si è rifugiato tra le colline dei Nebrodi, ospite del festival del giornalismo enogastronomico di Galati Mamertino, e da lì – col tono pacato di chi recita il rosario dopo una sconfitta – ha annunciato che riproporrà tutto: le stesse norme, le stesse idee, perfino le stesse parole. “Se c’è qualcosa da correggere, lo correggeremo”.  Il suo piglio è quello del monarca che confonde la perseveranza con la testardaggine. Si proclama “diesel” – “me lo ha detto un medico” – e insiste nel dire che non si fermerà.

La verità è che tutte le norme che promette di riproporre – a cominciare da quella sull’editoria – sono già state impallinate due volte. Forse perché alla maggioranza del Parlamento non piace la sua idea di finanziare, con fondi pubblici, un pezzo di stampa considerato fin troppo docile, sempre pronta a inscenare teatrini in cambio di robuste commesse. O forse perché i soliti pagnottisti di palazzo, abituati a campare di affidamenti diretti, avevano già fiutato l’occasione di continuare a raschiare soldi pubblici sotto la copertura del “sostegno all’informazione”.

Ma non è solo l’editoria. Anche la norma sul south working è caduta. Schifani la descrive come “una misura per i giovani siciliani”, ma l’aula non gli crede più. Per inciso, aveva promesso di riproporre pure quella sui laghetti aziendali, tanto cari al suo vice Sammartino: bocciata pure quella. E sulla riforma dei Consorzi di Bonifica, che doveva essere il fiore all’occhiello dell’agricoltura, ha preferito rinviare. Prima si è deciso di stabilizzare i lavoratori, poi si vedrà.

Il problema, però, non è solo aritmetico. È politico. La maggioranza che lo ha portato a Palazzo d’Orléans non esiste più. Da un lato ci sono i forzisti, divisi tra fedeli e scettici; dall’altro FdI che, dalla conferma di Iacolino alla Pianificazione strategica, gli ha promesso guerra; e poi gli autonomisti, pronti a dettare condizioni e a richiedere misure compensative (un altro assessore) che Schifani non sembra poter garantire. In mezzo, un governatore che non è più percepito come il garante dell’equilibrio, ma come il principale ostacolo alla sopravvivenza della coalizione.

Eppure non si rassegna. Rilancia l’idea del vertice di maggioranza, annuncia un rimpasto, promette correzioni e dialogo. Ma la verità è che la sua autorevolezza si è sgretolata. L’aula non vota contro le leggi, vota contro di lui. Contro il presidente che accentra tutto, che nomina, destituisce, modella la rete ospedaliera a immagine e somiglianza del proprio “cerchio magico” e lascia a Sammartino e Cuffaro la gestione quotidiana del potere. Un presidente che ha nominato due assessori – Dagnino all’Economia e Faraoni alla Sanità – in cui neppure Forza Italia si riconosce. E che non ha proferito parola sulla tragica fine della professoressa Maria Cristina Gallo, “vittima” di una sanità che ha ritardato di 8 mesi la consegna di un esame istologico.

Schifani, tuttavia, continua a mostrarsi sereno. Lo fa anche quando parla di “voti trasversali”, di “difficoltà di comunicazione”, di “correzioni possibili”. Ma non è questione di forma: è questione di fiducia. Quella che non ha più. Il suo governo, nato sotto il segno della stabilità, è oggi un mosaico di interessi in conflitto. Persino Ignazio La Russa, che l’ha protetto finché ha potuto, oggi si ritrova con le armi spuntate. Perché non è semplice né conveniente difendere l’indifendibile. E quindi, ognuno per sé. Gli alleati guardano altrove, i deputati si accontentano di racimolare gli ultimi strapuntini, e il presidente continua a recitare la parte del capo incompreso. Ma la serenità, quando intorno c’è solo rottame politico, suona come una provocazione.

“Se mi sbaglio, mi corrigerete”, diceva Wojtyła con dolcezza evangelica. Schifani invece lo ripete per orgoglio, non per umiltà. Ma non ha capito che ormai nessuno ha più voglia di correggerlo: preferiscono lasciarlo andare, come un vecchio diesel che tossisce sulla salita e insiste a dire che va tutto bene.