Lo hanno ucciso a pochi metri dal Teatro Massimo, mentre cercava di sedare una rissa. Voleva solo riportare la calma ed è stato colpito a morte da un altro ragazzo, suo coetaneo. Due destini si sono incrociati nello stesso istante, e tutti noi siamo dentro quell’incontro.

Non ci sono “noi” e “loro”: ci siamo solo noi, una città che ha smesso di parlarsi.

Non è più la violenza della mafia, con le sue gerarchie e i suoi codici. E il presunto assassino che ha confessato, quando richiama Totò Riina, non vuole indicare un’appartenenza ma un modo improprio e balordo di trovare identità e consistenza. Perché la sua e quella che in genere quasi ogni giorno cogliamo è una violenza senza progetto, che nasce dal vuoto. È la voce di chi non ha voce, l’urlo di chi è cresciuto consapevole che non sarebbe mai stato ascoltato. Una violenza che non vuole potere, ma presenza: per esistere almeno un istante.

Abbiamo reciso i legami che un tempo tenevano insieme la città. Abbiamo chiamato “riqualificazione” l’espulsione dei poveri, “movida” l’occupazione commerciale del centro, “ordine” la punizione del disagio. Abbiamo smesso di guardare le periferie e di guardare negli occhi i ragazzi che le abitano.

“Serve ricostruire una educazione alla legalità”, proclama il sindaco di Palermo. Ampio programma, si direbbe. Potrebbe cominciare con gli interventi più immediati. Dai “rifiuti”, per esempio, di ogni genere. Qualche giorno fa, in una insula dello ZEN è stato realizzato un laboratorio su Santa Rosalia con le donne del quartiere. Di fronte allo spazio dove l’attrice Simona Melato ed altri recitavano, una enorme installazione di munnizza “allietava” gli spettatori.

Il sindaco di Palermo, le istituzioni regionali e nazionali potrebbero far propria l’indicazione di Renzo Piano che indica la riqualificazione delle periferie come una delle priorità per la vita delle nostre città e per la tenuta sociale al loro interno. Eppure ci stupiamo se la rabbia diventa arma, se l’abbandono si trasforma in lutto, quasi fosse un’imprevista sorpresa.

Non si tratta solo di sicurezza. Si tratta di restituire senso e dignità alla vita di chi non ne ha mai avuto. Scuola, arte, lavoro, giustizia sociale: sono le forme concrete della sicurezza, che da sola risulta proclamazione vaga o si trasforma in becera esibizione di forza. Senza tutto ciò, senza legge, nessuna pattuglia, nessuna telecamera può evitare che un ragazzo impugni una pistola per farsi vedere.

La città non deve più chiedersi come punire, ma come riconnettersi. Come creare ponti dove abbiamo costruito muri. Come ascoltare il dolore prima che si faccia violenza.

Come tessere la grande manifestazione di senso civile, di partecipazione di migliaia di giovani palermitani dei giorni scorsi con la violenza frequente di chi ogni sabato, occupando il centro, sembra trovare un improprio modo per dichiararsi presente. La morte di quel giovane non è solo la fine di una vita: è il segnale che una parte di noi, collettivamente, è già morta. Sta a noi decidere se continuare a ignorarlo, o se finalmente provare — tutti — a risorgere insieme. Tutti. Da chi scrive al sindaco di questa città, al potere regionale e nazionale, ai partiti, da anni sordi, lontani, ripagati con l’indifferenza e con l’irrilevanza.

Tocca capire, finché si è in tempo, ciò che ci dicono i giovani di oggi, quelli che manifestano per Gaza e quelli che portano con sé il coltello o la pistola. Per salvare una generazione. Per porre al centro dell’azione politica il valore della giustizia sociale, premessa essenziale per l’ordine.