La diretta da Israele di ieri, ostaggi liberi e Trump accolto come Ciro il Grande alla Knesset, è stata il più grandioso spettacolo politico immaginabile. Once in a lifetime, come dicono gli inglesi e gli americani. Ore e ore di attesa e di giubilo. Prima la liberazione delle ultime vittime ancora vive del 7 ottobre, i mezzi della Croce Rossa in movimento, gli elicotteri per il trasporto verso gli ospedali, verso le famiglie, le prime fotografie, i sorrisi, gli abbracci tra di loro e con soldati e soldatesse dei giovani rapiti dal concerto interrotto dall’orrore, dal pogrom, quelli che hanno resistito all’ordalia, le cure e il debriefing militare, i sorrisi e gli abbracci con i famigliari, la folla gaudente e piangente nella piazza intitolata agli ostaggi che cantava e ballava. Poi l’as semblea parlamentare, con i discorsi del presidente della Knesset, di Netanyahu, del capo dell’oppo sizione Lapid, e del liberatore in chief, Donald Trump, retore strepitoso di istinto machiavellico e insieme buffo e witty, spiritoso, uomo di guerra e di pace destinatario di decine di ovazioni e di lodi iperboliche, per una volta credibili e meritate. Non parlo dei contenuti politici ma della forma, il cosiddetto significante che spesso supera il significato, lo assorbe, lo trasforma. Continua su ilfoglio.it
