Lo scorso weekend a Catania (e dove, sennò?) Fratelli d’Italia ha celebrato la sua festa del perdono. Tre giorni di abbracci, riconciliazioni e pacificazioni sotto l’insegna della “comunità patriota”. Ufficialmente, un momento di confronto sui Comuni. In realtà, un rito di autoassoluzione.
Sul palco, tra sorrisi e slogan, si è consumata la restaurazione del vecchio potere: indagati, redenti e sopravvissuti agli scandali sono tornati a dettare legge. A guidare la processione, come un patriarca che riabbraccia i figli smarriti, è stato Nello Musumeci. Da ministro e da ex governatore, ha usato il palco di casa per lanciare un messaggio chiaro: “dimentichiamo tutto”. Lo ha fatto a modo suo, con tono affettuoso ma politico, rivolgendosi a Manlio Messina, l’ex assessore al Turismo uscito dal gruppo della Camera dopo mesi di tensioni e accuse interne.
Ma soprattutto al culmine di un processo che sembrava aver portato Giorgia Meloni a una decisione drastica: commissariare il partito per “ripulirlo” dalle numerose storture (a cominciare dal caso Auteri, fedelissimo del Balilla, che aveva canalizzato i contributi regionali per la cultura su alcune associazioni “amiche”). «Manlio appartiene alla nostra storia, fa parte della nostra comunità. Mi auguro che possa ripensarci», ha detto Musumeci.
È il simbolo di una nuova stagione di indulgenza, in cui il garantismo è diventato la dottrina ufficiale. La linea è una sola: non lasciare indietro nessuno, neanche chi ha trascinato il partito a fondo. Lo stesso Musumeci, interpellato a proposito di Cannes quando deflagrò il caso (era il gennaio 2023), aveva usato solo parole dolci per Messina, capace — a suo dire — di dare al suo governo un respiro internazionale. Ed è per questo, per quel passato condiviso e foriero di soddisfazioni enormi, che oggi lo rivorrebbe in pista.
Sul palco c’era anche Galvagno, presidente dell’Ars e uomo chiave nei rapporti con Schifani. Indagato per corruzione e peculato, si è presentato con il profilo di chi vuole rassicurare. Ai giornalisti ha dichiarato: «Ho incontrato Schifani fino a ieri e non mi ha manifestato alcun dissenso». E ciò nonostante le scintille maturate in seguito al giovedì nero all’Ars, dieci giorni prima, l’esponente meloniano non aveva perso occasione di schierarsi contro il governo, criticare Forza Italia e appoggiare la condotta dei parlamentari di FdI, noncuranti dell’invito del governatore a uscire dall’aula. “È impazzito”, fu la confidenza di Schifani riportata dal quotidiano La Sicilia. Eppure… L’idea di compattezza serve a coprire tutto: le fratture, le indagini, i fallimenti.
Accanto a lui, Elvira Amata. Anche lei indagata per corruzione, anche lei tornata protagonista. Dopo le intercettazioni, i favori chiesti a Lady Dragotto, le mance per Messina e provincia, il clamoroso scivolone (poi perdonato) sul finanziamento al film dedicato alla vita di fratel Biagio, è tornata al suo posto come se niente fosse. Ha parlato di “rilancio”, di “destagionalizzazione”, di “futuro”. A completare il quadro, il commissario regionale Luca Sbardella, il proconsole mandato a rimettere in riga i siciliani. Dopo il crollo della maggioranza in aula, ha imposto a Schifani le sue condizioni: fuori Iacolino, ridimensionamento della Lega (Trantino e il Carroccio sono ai ferri corti anche al Comune), Finanziaria da scrivere insieme. Ora parla di “armonia”, ma il messaggio è sempre lo stesso: o si fa come dice Fratelli d’Italia, o non si fa nulla.
Musumeci, intanto, è tornato su un vecchio cavallo di battaglia: il voto segreto all’Ars. «È una vergogna, una norma feudale», ha tuonato. Poi ha aggiunto una spruzzata di antimafia: “In una regione con un alto tasso di mafiosità, dove il confine tra politica e malaffare non è mai stato nitido e definito, consentire al parlamento di votare in maniera segreta significa piegare alla volontà di soggetti esterni la volontà del parlamento. È la cosa più indecorosa che si possa fare”. Peccato che i suoi stessi deputati l’abbiano usato senza scrupoli per massacrare il governo. Anche Sbardella, fingendo che non fosse accaduto nulla, ne aveva invocato l’abolizione. Due moralisti improvvisati, a cose fatte.
E mentre a Catania si celebrava la festa della riconciliazione, da Roma è arrivata la benedizione di Ignazio La Russa: «State lavorando bene». È stata la frase che ha chiuso il cerchio. Lavorano bene perché si tengono stretti tutti, anche chi avrebbe dovuto farsi da parte. Perché la compagnia degli scandali non ha mai abdicato (basti vedere la conferma dei dirigenti — cui la Corte dei Conti contesta un presunto danno erariale — nei posti di comando). Perché la questione morale, in Sicilia, è stata rimossa con un colpo di spugna. Chi ha dilapidato milioni con SeeSicily, chi ha usato l’auto blu come taxi, chi ha distribuito contributi in cambio di favori, oggi è tornato a parlare di etica pubblica e programmazione. Nessuno ha chiesto scusa, nessuno si è dimesso, nessuno è arrossito. In qualsiasi altro posto del mondo, il caso Galvagno o l’inchiesta su Amata avrebbero aperto una crisi. In Sicilia, ci si sono aperti i lavori di un convegno.
Catania è diventata il teatro della restaurazione morale: si perdona tutto e tutti. Il tempo dell’impunità, che Fratelli d’Italia ha sempre avuto la presunzione di indossare come un saio, ha trovato la sua consacrazione. E così la “festa del perdono” si è chiusa con una certezza: la politica siciliana non conosce il senso del pudore, solo quello della convenienza. L’unità del partito vale più della credibilità delle istituzioni. Il futuro si costruisce sulla rimozione del passato. «Una stretta di mano non si nega a nessuno», ha detto Musumeci. E infatti non l’hanno negata a nessuno: né a chi è indagato, né a chi ha fallito, né a chi ha usato la Regione come un ufficio di collocamento. In Sicilia, più che una mano, ci si è lavata la coscienza.