Arrivano le riforme. Ma solo se passa la Finanziaria. È la nuova frontiera del governo Schifani, che dopo tre anni di mance e di nomine, utili per raffreddare i bollenti spiriti della maggioranza, prova a reinventarsi come innovatore. Non è mai troppo tardi, direbbe qualcuno. O forse sì. Perché quando si arriva alla fine della legislatura con un bilancio tutto da scrivere e una coalizione da ricucire, la parola “riforme” suona come un atto di fede.
Il vertice di maggioranza di lunedì a Palazzo d’Orléans ha sancito la svolta. L’uomo che fino a ieri sognava di abolire il voto segreto – per garantirsi un’assicurazione sulla (sua) vita politica – oggi si affida alla Legge di Stabilità (da oltre 600 milioni) per tenere in piedi il governo. “Partiamo con una Finanziaria light”, ha detto ai suoi. Pochi articoli, pochi rischi e un solo obiettivo: far scattare il cronometro dei 45 giorni previsti dal regolamento dell’Ars. Poi si vedrà.
Le riforme sugli enti locali, sui Consorzi di bonifica e sulla dirigenza regionale possono aspettare. Però, anziché accantonarle del tutto, vengono agitate come un vessillo per dare l’impressione (solo quella) che il governo abbia una proiezione futura e goda di discreta salute. Nel frattempo, Schifani ha messo in freezer l’abolizione del voto segreto. Doveva essere la garanzia contro i traditori – la Dc ha già depositato un disegno di legge a Palazzo dei Normanni – ma è diventata l’ultima delle priorità. Miracolo dei franchi tiratori: non solo sopravvivono, ma riscrivono pure l’agenda.
Il rischio che potessero impallinare anche la cancellazione del voto segreto ha convinto il centrodestra a rallentare un attimo, a tirare il fiato, ad archiviare i propositi incendiari delle ultime settimane, la “grettezza sociale e politica” (Cuffaro dixit), che aveva portato i ribelli a bocciare un terzo dell’ultima manovrina. Amen. Non c’è tempo per altri scivoloni.
In realtà Schifani ha avuto tre anni per riformare la Regione, ma li ha spesi quasi tutti per amministrare il consenso. Dopo aver messo all’indice i sistemi spartitori del passato, ha lottizzato la sanità in ogni provincia, nominando commissari (prima) e direttori generali (poi) scelti col bilancino. Poi li ha minacciati (“chi non raggiunge gli obiettivi, sarà revocato”). Gli obiettivi, in molti casi, erano lo smaltimento delle liste d’attesa, quelle che ancora oggi paralizzano gli ospedali. Nel frattempo, tra una conferenza stampa e una “strigliata”, ha provato a scaricare le colpe sui burocrati, accusati di rallentare la macchina amministrativa e di compromettere la spesa dei fondi europei.
Schifani, inoltre, ha gestito in prima persona il sottogoverno, distribuendo incarichi in società partecipate e consorzi, nel tentativo di tenere tutti a bordo. Ha nominato due tecnici in giunta – Dagnino e Faraoni – scatenando l’ira di una larga parte del gruppo forzista, che col voto segreto ha restituito il favore, affossando alcuni articoli chiave delle precedenti manovre. Poi è arrivato il caso Iacolino, che ha incrinato i rapporti con Fratelli d’Italia e azzoppato la tenuta della coalizione. In mezzo, una sequenza di “valzer delle poltrone” e di richiami moralizzatori. Il risultato è un governo che ha fallito ogni esperimento di ricomposizione politica. E che adesso, con le scarpe ormai strette, trova spazio per le riforme.
A Palazzo d’Orléans, intanto, si brinda al “clima di coesione e responsabilità”. Al vertice di lunedì erano presenti tutti i partiti. Mancava solo l’assessore all’Economia Alessandro Dagnino, che la Finanziaria dovrà comunque firmare. Ma soprattutto manca un’idea di governo. Si parla di sgravi fiscali alle imprese che assumono (duecento milioni di euro, secondo le prime stime), ma il resto è tutto da inventare: cento milioni già assegnati agli assessorati per le spese obbligatorie e un “tesoretto” di 250 milioni da spartire tra norme nuove e vecchie delusioni. Quelle bocciate dai franchi tiratori nella manovra-quater: il fondo per l’editoria, i laghetti delle imprese agricole, il “south working”. Le solite trovate da stagione elettorale.
La linea ufficiale è che “non ci saranno mance”. Ma in Sicilia, come si sa, la mancia non muore mai: cambia solo nome. Si chiama incentivo, ristoro, contributo, misura di sostegno. Un lessico familiare che sopravvive a ogni governo. E che oggi torna utile a Schifani per recuperare consenso dentro una maggioranza stanca e divisa.
Le riforme, semmai, arriveranno dopo. Quando si sarà approvata la Finanziaria e placata la fame degli alleati. In cima alla lista ci sono il ddl Enti locali, quello sui Consorzi di bonifica e la riforma della dirigenza regionale. Tutti testi annunciati e mai calendarizzati. Eppure è da lì che dovrebbe passare la “modernizzazione dell’amministrazione regionale” di cui parla il presidente. Parole grosse, per chi negli ultimi tre anni ha pensato soprattutto a selezionare manager e commissari (talvolta anche sub-, come nel caso del meloniano Nicola Catania).
E infatti l’ultimo fronte aperto riguarda proprio le nomine. Quelle di Iacolino alla Pianificazione strategica e di Alberto Firenze all’Asp di Palermo, che ancora non sono state ratificate. La paura è che un singolo passo falso possa far saltare il banco. Fratelli d’Italia tiene il coltello dalla parte del manico. Schifani ha promesso al commissario regionale Sbardella di “trovare una soluzione”, ma per ora la soluzione è rinviare tutto. Anche la commissione Affari istituzionali, che avrebbe dovuto esaminare la nomina di Firenze, è saltata per l’indisponibilità dell’assessora Faraoni. Ufficialmente per motivi d’agenda, in realtà per non scoperchiare l’ennesimo vaso di Pandora. Così la partita delle riforme finisce dove sono finite tutte le partite di Schifani: in un rinvio.


