Il Ponte sullo Stretto, per ora, non si farà. E i grandi sconfitti sono Matteo Salvini e Renato Schifani, che da mesi si contendono la medaglietta di un progetto fermo alle carte bollate. Il primo lo ha trasformato in bandiera identitaria, il secondo in un investimento d’immagine da 1,3 miliardi, sottratti ai fondi di sviluppo della Sicilia. Ma la realtà, ancora una volta, ha presentato il conto: la Corte dei conti ha bocciato la delibera Cipess e l’opera-simbolo del governo Meloni si è inceppata tra strafalcioni, arroganze e fughe in avanti.

Un atto dovuto, perché – dicono i giudici contabili – la documentazione del governo era un puzzle di errori, omissioni e atti “anonimi”. Nella relazione che dichiarava il Ponte “opera urgente e di necessità per lo Stato”, per esempio, mancava la firma del dirigente responsabile. In altri casi i ministeri hanno consegnato schede finanziarie sbagliate, poi giustificate come “non aggiornate per errore”. Non proprio il livello di precisione che ci si aspetta da un investimento miliardario.

La relatrice Carmela Mirabella, durante un’udienza fiume di cinque ore, ha ricordato un altro dettaglio che il governo preferirebbe dimenticare: secondo le norme europee sulla concorrenza, se i costi di un’opera aumentano del 50 per cento rispetto alla gara originaria, bisogna rifare tutto da capo. Il rischio di una procedura di infrazione, dunque, è tutt’altro che remoto. Ma a Palazzo Chigi hanno fatto spallucce. “Avanti lo stesso”, ha ordinato Salvini.

Ed è qui che il gioco si è fatto perverso. Perché invece di rispondere nel merito ai rilievi tecnici, si è scelta la strada dello scontro frontale: Meloni ha parlato di “invasione” dei giudici, Salvini di “scelta politica”, Schifani di “ostacolo allo sviluppo”. Come se la Corte dei conti fosse un covo di sabotatori e non un organo di garanzia costituzionale. Il giorno dopo, però, la realtà ha imposto una frenata: a Palazzo Chigi il “vertice di guerra” si è trasformato in una riflessione più prudente. Niente scorciatoie: meglio attendere le motivazioni ufficiali, perché pubblicare una delibera non bollinata – cioè priva del controllo di legittimità – sarebbe un precedente pericoloso persino per loro.

Nel frattempo la farsa si è spostata a Sud, dove Schifani ha continuato a giocare la sua partita personale. Da mesi rivendica un ruolo “decisivo” nel progetto, avendo messo sul piatto 1,3 miliardi del Fondo di Sviluppo e Coesione: risorse che la Sicilia avrebbe potuto destinare a scuole, ospedali o infrastrutture reali (e che, anche per volere del Mit, hanno avuto un altro corso). “Che fine faranno quei soldi?”, chiedono dal Pd. Non pago, il governatore si è spinto oltre, parlando di “un conflitto apparente tra poteri che abbiamo già vissuto e segnalato anche in Sicilia”.

Ma la verità è che il Ponte, per i leghisti e per i loro alleati siciliani, è molto più di un progetto: è un simbolo di sopravvivenza. Il Carroccio siciliano, infatti, è ormai più pontista che leghista. “Il Ponte sullo Stretto viene prima di strade e ospedali”, aveva detto senza esitazioni Nino Germanà, segretario regionale del partito. Messinese. E i numeri confermano la metamorfosi: il 68 per cento dei militanti e simpatizzanti isolani si dichiara favorevole all’opera. È la nuova religione del consenso: un ponte come promessa di redenzione, utile a coprire vuoti politici e amministrativi.

C’è poi un’altra arroganza da segnalare: quella di Webuild, il colosso incaricato di realizzare l’opera come capofila del Consorzio Eurolink. Solo pochi giorni fa ha annunciato di aver ricevuto 7 500 candidature in tre giorni per lavorare ai futuri cantieri del Ponte. “Un entusiasmo straordinario”, hanno commentato dall’azienda, che intanto agisce come se tutto fosse già deciso. Poco importa che la Corte dei conti non abbia ancora autorizzato un solo euro di spesa: il messaggio politico e mediatico è già passato.

Già nell’autunno 2024, con l’appoggio esplicito della Regione, Webuild aveva organizzato giornate di reclutamento a Palermo e Catania per centinaia di operatori. Schifani, presente all’apertura dei lavori, aveva arringato i candidati con toni da comizio: «Date il meglio di voi, avete un governo che è dalla vostra parte». Quelle selezioni, sostenute dai Dipartimenti regionali del Lavoro e della Formazione, furono il preludio a un’intensa campagna di consenso, costruita attorno all’idea che il Ponte fosse ormai alle porte.

A Belpasso, in provincia di Catania, il gruppo dispone già di un Centro di addestramento avanzato per lo scavo meccanizzato, inaugurato nel novembre 2023 insieme alla Regione. Una struttura dotata di simulatori TBM e macchinari all’avanguardia, diventata il cuore della formazione e del racconto industriale del Ponte. Lì si organizzano corsi, recruiting day e collaborazioni con scuole e università, in base a un protocollo firmato anche con le Regioni Calabria e Campania. Prima si costruisce il consenso, poi – eventualmente – l’opera.

È il paradosso perfetto di questa stagione di governo: si assumono lavoratori senza avere un cantiere, si annuncia l’avvio dei lavori – ora posticipato a febbraio 2026 – senza la bollinatura della Corte dei conti, si attacca la magistratura perché pretende che le carte siano in regola. Sotto il Ponte, non scorre ancora alcuna carreggiata, ma un fiume di propaganda che rischia di travolgere la verità.