In queste storie che da parecchi giorni interessano l’opinione pubblica, la Democrazia cristiana non c’entra. Quel partito ha concluso la propria esperienza nel 1994. Ne rimane la memoria, si può continuare a manifestare il giudizio per i meriti e le responsabilità che ha avuto in più di cinquant’anni.
La Democrazia cristiana appartiene alla storia. Quella che porta il suo nome oggi è una formazione diversa, legata al nostro tempo, delimitata territorialmente, priva delle radici del partito di De Gasperi, di Moro e di Piersanti Mattarella, animata da un tentativo del tutto improbabile di far rivivere un’esperienza compiuta.
Qualche volta sono stato chiamato a partecipare ad iniziative della Nuova Democrazia cristiana per raccontare le vicende del passato alla luce della mia esperienza. In quelle circostanze non ho mai nascosto la convinzione che nessuna resurrezione sarebbe risultata possibile, ma ho incontrato uomini e donne che guardavano, magari con nostalgia e rimpianto, ad un tempo trascorso, poco conosciuto. Ho visto molti giovani che immaginavano di dar vita ad una forza politica che si collegava a valori ed esperienze propri del mondo cattolico e con la quale dare un contributo utile alla realtà odierna. Nella maggior parte di loro non ho scorto quello che viene indicato come “cuffarismo”, semmai curiosità, talora vero e proprio entusiasmo.
Ora, se, al di là di eventuali reati, qualcuno immagina che quanto emerso dalle cronache di questi giorni riguardi esclusivamente Cuffaro, commette un grosso errore o è in evidente malafede. Cuffaro non può diventare il capro espiatorio per ottenere un’indulgenza plenaria su responsabilità pregresse e su quelle in atto.
I metodi che si addebitano a lui sono stati propri di tutte le forze politiche di maggioranza. Egli è stato una delle gambe sulle quali un intero sistema si è retto e si regge. Con lui e con gli altri esponenti della maggioranza, il presidente della Regione ha individuato i vertici di tutte le strutture pubbliche, ha tenuto in piedi un meccanismo basato esclusivamente sulla spartizione, un metodo non nuovo, del resto, ma la cui vetustà non ne giustifica la ripetizione.
Forse un tempo ci si preoccupava di attenuarlo, il metodo, con qualche riferimento al merito delle persone scelte, che venivano poi individuate non solo all’interno della ristretta cerchia dei portaborse e dei bocciati alle elezioni. Si spartivano i posti, ma si tentava di non ignorare del tutto l’efficienza, l’interesse pubblico, l’utilizzo corretto delle risorse.
Quando si procede nel modo adottato in questi ultimi anni, l’esercizio del potere diventa facilmente il terreno nel quale si insedia il malaffare.
Schifani ha revocato le deleghe ai due assessori della Nuova Democrazia cristiana con una scelta indispensabile ed anche utile. La prevedibile crisi di quel partito libera molti voti che, con ogni probabilità, rimarranno a destra, distribuendosi tra le forze di governo.
Con la crisi di quel partito si elimina poi una anomalia, si estrae una spina irritativa che in questi anni ha complicato il rapporto tra i partiti a dimensione nazionale, ha finito per essere una specie di vascello corsaro, una calamita per quanti sono stati indotti a lasciare il loro schieramento per cercarne uno nuovo e più agevole.
L’ultimo parlamentare in procinto di approdarvi ha fatto appena in tempo a fermarsi prima del salto.
Schifani è stato lesto a compiere un gesto opportuno. E tuttavia, se il presidente della Regione e coloro che guardano con ipocrita sorpresa e perfino con qualche sollievo alla crisi del “cuffarismo”, ritenendo che questo distolga l’attenzione dalla totale inefficienza del governo e dalla permanenza di una vera e propria questione morale, si sbagliano di grosso. I due assessori della Nuova democrazia cristiana, senza alcun personale addebito, solo per la loro appartenenza, sono stati messi fuori dalla giunta. Al suo interno rimangono però altri, con responsabilità dirette che dovranno ovviamente essere verificate dalla magistratura, e il loro ruolo viene ritenuto compatibile con le accuse che li riguardano.
La politica non può aspettare che la magistratura squarci di volta in volta il velo sotto il quale può nascondersi il malaffare e mostrare stupore e indignazione. Se vuol dare un segnale di autorevolezza e di resipiscenza, faccia una scelta dirimente, revochi le nomine di quest’estate e proceda con criteri meno vincolati alle pure esigenze di potere, adotti metodi che tengano conto anche di serie professionalità e garantiscano, per quanto possibile, il buon governo.
Il merito non è un concetto astratto, buono solo per essere sventolato da Meloni prima delle elezioni per diventare titolo di un ministero. Può invece essere una guida, un riferimento nella scelta delle persone da proporre alla direzione delle strutture pubbliche.
Il terreno sul quale si manifestano più frequentemente comportamenti discutibili, dove emergono anche ipotesi di reato, è quello della Sanità, quello che più immediatamente impatta con i bisogni, la sensibilità, la fragilità delle persone, che diventa emblematico di una malattia del sistema stesso. Ed è stato proprio questo il settore nel quale la distribuzione del potere è avvenuta alla luce dei criteri più rigorosi della spartizione e della appartenenza.
Non si può aspettare che sia ancora una volta la magistratura a scoprire ulteriori magagne, a far venire alla luce comportamenti che colpevolizzano tutta la politica, allargando il fossato che la separa dalla sensibilità della gente.
Sia la politica, se ha la forza e la dignità per farlo, a imboccare una strada diversa lungo la quale, insieme alle esigenze di potere, possano procedere il buon governo e l’interesse generale.


