Da qualche settimana, se si vuole capire dove va a finire il centrodestra siciliano, conviene guardare verso Catania. Da quell’area, infatti, provengono le spinte più forti e contraddittorie che investono il governo. Lì si muovono Musumeci, Lombardo, Sammartino, Galvagno. Lì si formano crepe, scontri, riposizionamenti. Lì maturano tensioni che a Palermo arrivano amplificate.
Il caso vuole (o forse no) che proprio da un catanese doc, già presidente della Regione, siano partite le ultime saette politiche. Quelle di Nello Musumeci, che durante la celebrazione dei tre anni del governo Meloni (al Molo Trapezoidale di Palermo) ha trasformato un discorso celebrativo in un processo alla Regione. Schifani ascolta in prima fila, fino all’ultimo minuto, convinto – almeno a parole – che i rapporti con FdI restino “solidissimi”. Intanto Musumeci ha appena spiegato che la Regione “è stata fondata sul sistema clientelare e sul consociativismo parlamentare”, che l’abuso del voto segreto serve “a mandare messaggi, a ricattare e a vendicarsi”, che nella politica siciliana o ti adegui o diventi “un problema”.
Chi gli imputa di aver dormito per cinque anni, in realtà, non ha capito: Musumeci fa riferimento a se stesso e al fatto di aver dovuto rinunciare alla candidatura perché divisivo: “Ci sono verità indicibili. Ci sono palle che è pericoloso toccare, soprattutto in Sicilia”, sosteneva nel corso di una conferenza stampa risalente a giugno ‘22, nella fase calante del suo governo. “Dobbiamo restare vigili rispetto a chi sta accanto a noi, a un palmo da noi”, ha spiegato l’altro ieri il Ministro della Protezione civile. È un messaggio chiaro: certe derive, sotto la sua guida, non sarebbero state possibili. Non è una polemica generica: è un posizionamento politico. Musumeci parla da figura che non accetta di essere considerata “del passato” e manda segnali non tanto all’opinione pubblica, quanto agli alleati interni al suo partito.
Fratelli d’Italia, in Sicilia, è oggi un partito diviso in almeno due pulsioni: quella che fa riferimento a La Russa e Galvagno e quella che guarda a lui, a Razza, a chi non si rassegna all’idea di avere perso centralità nella stagione post-2022. Ma Catania non è solo Musumeci. È anche la città in cui il Movimento per l’Autonomia è tornato a farsi sentire con toni duri, soprattutto adesso che lo scontro con la Lega ha rialzato la temperatura. Giuseppe Lombardo, deputato regionale e nipote di Raffaele, ha accusato l’assessore all’Agricoltura Luca Sammartino di avere introdotto criteri tali da “bloccare le stabilizzazioni” nei Consorzi di bonifica. Il leghista, fedelissimo di Schifani, ha risposto consigliando all’onorevole di “studiare di più” e rivendicando ciò che definisce “importanti risultati”.
Ma la questione non è tecnica: è politica. Il Mpa ha già avvisato Schifani che, in vista del vertice sulla Finanziaria, è meglio “differire le nomine negli enti regionali e in particolare in sanità”, settore che richiede “attenzione a contesti, competenze e curricula”. Tradotto: non si parla di poltrone finché non si chiarisce la linea politica. È un avvertimento a Sammartino, certo, ma anche a chi, come il presidente, si trova costretto a reggere un equilibrio che la maggioranza non gli garantisce più. Già in passato Lombardo – Raffaele questa volta – aveva alzato dei paletti rispetto alla gestione di Schifani, arrivando a paragonarlo a Trump (“E’ illuso di avere il potere assoluto”) prima che da Roma arrivassero segnali distensivi verso il Mpa (tant’è che il partito si è federato con Forza Italia).
A questo si aggiunge un’altra corrente di critica, sempre con epicentro catanese, ma di segno diverso: quella di Manlio Messina. Il Balilla, già assessore al Turismo del governo Musumeci e vice capogruppo di Fratelli d’Italia a Montecitorio, oggi è libero da vincoli dopo la fuoriuscita da FdI. Così, in pochi giorni, ha sferrato due attacchi pesanti: prima accusando Schifani di vantarsi di risultati economici ereditati dal governo precedente, poi concentrandosi sul Pnrr, parlando di “immobilismo”, “ritardi” e persino della possibilità di chiedere al governo nazionale un “commissariamento” della gestione siciliana. Ha persino minacciato di candidarsi contro l’uscente, se Schifani volesse davvero riprovarci.
È evidente che questa pressione non è casuale. All’interno di FdI, le due anime – quella istituzionale che fa capo a La Russa e Galvagno, e quella che guarda a Musumeci, Razza e agli scontenti – si muovono su binari paralleli e spesso opposti. Sbardella prova a tenere il partito unito, ma ogni suo tentativo viene puntualmente superato da una nuova esternazione, una nuova diffidenza, una nuova polemica. Le parole di Musumeci, gli affondi di Messina, le puntualizzazioni di Razza (anche lui critico per il segno di discontinuità dato da Schifani al governo): tutto converge nella stessa direzione, quella di ridimensionare la forza reale del presidente in carica.
E in mezzo a questo scontro c’è Schifani, che prova a governare con una maggioranza teoricamente ampia ma politicamente inquieta. C’è la Lega di Sammartino, che pesa molto più della sua rappresentanza numerica. C’è l’Mpa che, come sempre, avverte, segnala, condiziona. C’è FdI divisa e in cerca di un nuovo baricentro. C’è Forza Italia, umiliata in termini di rappresentanza politica. C’è la Dc di Cuffaro travolta dalle inchieste. C’è un quadro che somiglia più a una trincea continua che a una coalizione stabile.
Su tutto ci si divide – sulle stabilizzazioni, sul Pnrr, sulle nomine, sul voto segreto – ma quando la discussione sfiora davvero il cuore del problema, cioè la struttura dei sistemi di potere nell’isola, scatta una prudenza trasversale. Perché a mettere in discussione certi meccanismi, rischierebbero di restare sul campo non uno, ma molti. E la vera unità della maggioranza, oggi, sta proprio qui: nel tacito accordo di non scavare troppo. Musumeci, come sempre, si è limitato alla superficie. Bisognerebbe grattare ancora. Ed essere chiari una volta per tutte.


