In Forza Italia nessuno è davvero in condizione di offrire garanzie. Non lo è Renato Schifani, che vola a Roma per mettersi al riparo dalle manovre interne che puntano a commissariare il partito in Sicilia (al momento il coordinatore azzurro è anche il suo segretario particolare, Marcello Caruso). Non lo è Antonio Tajani, che lo riceve con cortesia ma senza la solidità di un segretario certo del proprio futuro. Entrambi chiedono rassicurazioni che nessuno dei due può dare. Schifani cerca la conferma della sua leadership sull’Isola; Tajani, insidiato dall’attivismo dei Berlusconi e dall’ascesa di Roberto Occhiuto, tenta di evitare che la Sicilia diventi l’ennesimo fronte aperto contro di lui.

Il faccia a faccia dell’altro ieri è durato circa un’ora e si è chiuso con una nota di rara essenzialità: «Tajani si è congratulato con il presidente Schifani per la rinnovata fiducia parlamentare e per gli obiettivi di risanamento economico raggiunti dal suo governo». Nessun accenno al bis a Palazzo d’Orléans, nessuna parola sulle lotte intestine, nessuna investitura ufficiale. Solo la promessa di una visita in Sicilia per “ascoltare tutte le province”, come se il segretario dovesse prima capire fino in fondo gli equilibri per poi decidere se e come intervenire. Il primo obiettivo di Schifani – evitare l’invio di un “normalizzatore” – sembra provvisoriamente raggiunto, ma la porta resta socchiusa.

A Roma erano già stati sondati alcuni nomi, con una leggera preferenza per Alessandro Battilocchio, romano, presidente della commissione d’inchiesta sulle Periferie. Sarebbe lui, nell’idea dei promotori, l’uomo giusto per «normalizzare il partito in Sicilia, ascoltando tutti e tutto». Non è un caso che questa prospettiva inquieti profondamente Palazzo d’Orléans. Perché un ispettore, anche se travestito da figura “super partes”, equivarrebbe a un atto di sfiducia pesante nei confronti del governatore.

Ma l’inquietudine cresce anche per un’altra mossa, ben più sottile: Tajani ha nominato Giorgio Mulè – capo riconosciuto della fronda siciliana – coordinatore nazionale della campagna per il referendum sulla giustizia. Un ruolo politico vero, che rafforza proprio chi Schifani considera il suo antagonista interno più temibile. «Antonio non lo sopporta, Mulè non sarà più nemmeno ricandidato», ha ripetuto più volte il governatore. E invece eccolo avanzare.

La frattura siciliana si consuma da mesi, ma negli ultimi giorni si è trasformata in una crepa profonda. Tommaso Calderone ha rotto definitivamente gli argini: prima con dichiarazioni pubbliche molto dure sulla presunta “incompatibilità” di Caruso, poi con una lettera indirizzata a Schifani e finita alla stampa. L’obiettivo è un colpo al cuore della giunta: l’assessora alla Salute, Daniela Faraoni. Calderone ha richiamato gli atti dell’indagine su Totò Cuffaro e la visita, il 29 maggio 2024, che l’allora commissaria dell’Asp di Palermo avrebbe fatto a casa dell’ex presidente della Regione: una «circostanza tale da far presumere un rapporto di possibile sudditanza». Un’accusa devastante per un assessore, ma anche per il presidente, che ha sempre difeso Faraoni e che con Cuffaro ha condiviso più di un pezzo di strada politica.

Calderone non è un isolato. Era stato Marco Falcone a individuare per primo il punto debole della gestione Caruso: «Oggi a Forza Italia Sicilia mancano la visione, il progetto, la caratura… Caruso può essere un buon funzionario, ma non è un leader». Il tema, oggi, non è più solo il coordinatore regionale, ma l’intero assetto del potere schifaniano: la presenza di tecnici in giunta, la sovrapposizione tra Palazzo d’Orléans e partito, la totale assenza di momenti di confronto interno. «Da quando Schifani impose Caruso contro la proposta di Berlusconi – dice Calderone – il partito non si è mai riunito. Per questo oggi è a pezzi».

A rendere il quadro ancora più instabile c’è un convitato di pietra che cresce ogni giorno: Roberto Occhiuto. Il governatore della Calabria, fresco di rielezione e in crescente sintonia con i Berlusconi, sta diventando un riferimento per chi immagina un futuro post-Tajani. Il 17 dicembre sarà l’ospite d’onore del convegno “In libertà” a Palazzo Grazioli, luogo-simbolo del berlusconismo. Tra gli invitati ci sono Mulè, Calderone e Matilde Siracusano. Una corrente in embrione, con la benedizione non dichiarata di Marina Berlusconi. E non è un mistero che Arcore guardi con favore a un partito più liberale, più moderno, meno appiattito su Lega e Fratelli d’Italia. Occhiuto, con le sue battaglie su Uber, i suoi investimenti in Calabria e il suo profilo anti-sovranista, sembra perfetto per il ruolo.

È in questo contesto che Schifani si scopre più solo che mai. Né Tajani né la coalizione sono pronti a offrirgli una rete di protezione. Fratelli d’Italia non ha alcun interesse a blindarlo. La Lega – vedere Salvini con la mossa all’Autorità portuale e con i consigli sul prossimo candidato alla presidenza – sfrutta ogni occasione per ricordargli la sua debolezza. Il Mpa di Lombardo lo bacchetta dentro e fuori dall’aula, palesando la propria insoddisfazione per i pieni poteri a Sammartino.

E così, nel momento in cui Schifani chiede certezze, Roma risponde con mezze promesse. Nel momento in cui Tajani dovrebbe mostrarsi forte, la sua stessa leadership viene messa in discussione. E nel momento in cui Forza Italia dovrebbe presentarsi unita, appare come un mosaico di fazioni in movimento (per non dire in lotta). La Sicilia, ancora una volta, diventa la cartina di tornasole di un partito che fatica a decidere, a scegliere, a garantire. Un partito che, senza Silvio, è diventato l’ombra di se stesso.