Renato Schifani governa la Sicilia in uno stato di permanente contraddizione. Alle prese coi difficili equilibri della maggioranza – aveva deciso di rinviare il redde rationem coi partiti all’indomani dell’approvazione della Legge di Stabilità, così da poter blindare la manovra – il presidente si è avvitato su se stesso. Sembra impantanato in un limbo dove prevale il terrore di buscarle dai “franchi tiratori”. Dove non c’è spazio per una singola decisione riformista. E dove al netto dell’ordinaria amministrazione, e dei provvedimenti tampone annunciati con la Finanziaria (30 milioni ai Comuni, 10 per l’integrazione oraria dei Pip), anche la strategia politica è latitante. Azzerata.

Ne è testimonianza l’ultimo cambio di rotta repentino, in un sabato di metà dicembre, a margine di un’iniziativa sulla giustizia: prima reagisce gelido alla proposta di rimpasto avanzata da Totò Cardinale, massimo rappresentante della corrente di Forza Italia che fa capo all’assessore Edy Tamajo; poche ore dopo lascia filtrare da Palazzo d’Orléans che il rimpasto lo farà davvero. Non solo: che andrà oltre i due assessorati sottratti, e mai restituiti, alla Democrazia Cristiana.

Il problema è che Schifani non riesce più a scegliere. Da un lato ha bisogno dei voti dei sette orfani di Cuffaro per sopravvivere all’Ars; dall’altro non ha la forza – o il coraggio – di restituire alla Dc i due assessorati tolti dopo l’inchiesta che ha travolto il loro leader. Farlo significherebbe smentire se stesso, rinnegare la posa del presidente inflessibile, del garante morale. Ma Schifani non riesce nemmeno a interpretare fino in fondo quel ruolo.

Il presidente vorrebbe apparire puro e duro, ma non ha il coraggio di “cacciare” Elvira Amata dal governo. L’assessore al Turismo, allieva del Balilla, è imputata per corruzione dalla Procura di Palermo. In cambio di alcuni, presunti finanziamenti, avrebbe chiesto a Marcella Cannariato di piazzare il nipote in una agenzia di brokeraggio. A differenza degli appestati Messina e Albano, su di lei pende la richiesta di un processo (e alcuni interrogativi inquietanti: come quello rilanciato da Report sulla collana ricevuta in regalo dalla direttrice di Taobuk). Rinunciarvi, però, significherebbe perdere l’appoggio di Fratelli d’Italia e, soprattutto, del suo santo in paradiso: Ignazio La Russa. L’unico che potrebbe (ma lo vorrà davvero?) garantirgli una chance di ricandidatura.

Il risultato è un presidente immobilizzato. Che finge indifferenza, mentre intorno a lui Forza Italia ribolle, si divide, si guarda allo specchio e scopre di non piacersi più. Le parole di Totò Cardinale – liquidate con fastidio – hanno avuto un effetto rivelatore: hanno fatto emergere un dibattito che covava sotto la cenere. La richiesta di un rimpasto – che era già pervenuta dall’ala falconiana del partito, quella che non ha mai digerito la nomina di due “tecnici” in posizioni apicali (all’Economia e alla Salute) – è stata percepita non tanto come una provocazione ma come una miccia.

All’Astoria Palace, durante l’evento organizzato sabato scorso da Giorgio Mulè, si sono ritrovate due Forza Italia: quella che resiste per inerzia e quella che prova a interpretare il messaggio di Pier Silvio Berlusconi sul rinnovamento. Oltre ai “nemici giurati” Mulè, Falcone e Calderone, erano presenti anche i deputati Gallo Afflitto, De Leo, Pellegrino: tutti insieme a parlare di tessere, congresso, aria da cambiare in un partito che Marcello Caruso – il Mazzini de noantri (cit.) – non ha mai riunito dal giorno della sua incoronazione. Schifani, invece, se n’è andato in silenzio, senza prendere la parola, senza approfondire il malessere che da mesi cova sotto il tappeto.

Eppure, mentre all’Astoria faceva finta di non aver sentito le imbeccate di Cardinale, ai suoi fedelissimi raccontava un’altra storia: dopo la Finanziaria, il rimpasto si farà. Non solo per coprire Funzione pubblica e Lavoro, i due assessorati rimasti “scoperti” dopo la revoca dei democristiani, ma un’operazione più ampia. Qualche ritocco (abbondante) per tenere in equilibrio alleati inquieti e correnti azzurre. Con un dettaglio decisivo, però: qualsiasi ragionamento concreto è rinviato a metà gennaio, dopo la decisione del Gup sull’assessora Amata. Tradotto: Schifani non decide, aspetta. Aspetta i giudici, aspetta Roma, aspetta che qualcun altro gli risolva il problema.

È qui che l’intervista di Cardinale diventa più che una polemica. Diventa una diagnosi. «Questo governo, così com’è, non va più bene», ha detto l’ex ministro delle Comunicazioni a ‘La Sicilia’. Aggiungendo una frase che Schifani finge, tuttora, di non sentire: bisogna chiamare i partiti ad assumersi una responsabilità politica forte. Tradotto: basta governi tecnici travestiti da politici, basta ipocrisie garantiste a giorni alterni.

Schifani una via d’uscita ce l’avrebbe. Ed è l’unica davvero coerente. Azzerare la giunta. Tutta. Senza distinguo, senza eccezioni. Azzerare e lasciare ai partiti la responsabilità di purificare la politica, di scegliere uomini e donne che non siano un problema giudiziario, morale o politico. Costringere i patrioti di Fratelli d’Italia, freschi della passerella di Atreju, a rinunciare alle proprie mele marce. Costringere Forza Italia a smettere di galleggiare e impegnarsi sul serio in un’azione di governo che fin qui l’ha vista ai margini (con un solo assessore d’altronde…). Costringere tutti a metterci la faccia.

Sarebbe una scelta coraggiosa, forse l’unica rimasta. Consentirebbe a Schifani di ripartire davvero da zero, di ridare dignità a una legislatura che fin qui ha mostrato solo malgoverno, scandali, inchieste e una perenne sensazione di provvisorietà. Tutto il resto – i mezzi rimpasti, le attese giudiziarie, le finte distrazioni – è solo gestione dell’agonia.