L’ultimo ingente carico di mascherine, camici, guanti e occhiali protettivi provenienti dalla Cina basterà per un po’. Ma è solo il primo di numerosi viaggi (da Shanghai) che riempirà la Sicilia di kit di protezione per medici e infermieri. Una boccata d’ossigeno per Musumeci e Razza, che nelle ultime settimane non hanno fatto mistero di sentirsi troppo soli. Nemmeno il grido d’aiuto, disperato e lagnoso, nei confronti di Roma ha dato risultati. Così la Regione ha scandagliato il mercato estero e, nonostante i timori – una precedente commessa internazionale si era bloccata in Turchia – 40 tonnellate di Dpi (dispositivi di protezione individuale) sono giunti a Palermo, accolte sul red carpet dal governatore in persona. “Ci sono volute più di due settimane di lavoro e confesso che fino all’ultimo abbiamo temuto che l’importante acquisto potesse saltare” ha detto Musumeci, che non si fida più di nessuno. Tranne che dell’Università di Pittsburgh, socio forte dell’Ismett di Palermo, che ha fatto da tramite e portato a termine il ponte-aereo con la Cina.

Qui si parla di milioni di dispositivi, non meglio quantificati, ma comunque in grado – parzialmente – di sopperire all’iniziale richiesta avanzata all’unità di crisi nazionale, e mai accolta. Un giorno Musumeci era andato in tv a rinfacciare il lassismo dello Stato: “Se Roma non ci ascolta corriamo il rischio di combattere una guerra con le fionde”. Il presidente della Regione aveva fornito, nel dettaglio, alcuni numeri: aveva chiesto 13 milioni di mascherine chirurgiche, ma se n’era viste recapitare poco più dell’1% (170 mila); su 5,2 milioni di mascherine Ffp2 e Ffp3 (quelle col filtro, ideali per i medici), ne erano giunte a destinazione 41.560; e rispetto ai 416 ventilatori richiesti, la risposta era stata drammatica (zero).

Questa dei ventilatori polmonari, è una partita aperta e delicata. Perché è facile enunciare i posti letto di terapia intensiva pronti a entrare in funzione. Se mancano i macchinari, però, la fatica si rivela inutile: “Si era detto che l’unità di crisi nazionale avrebbe provveduto a trasferire in periferia camici e ventilatori. Abbiamo atteso fino a quando arrivassero e sono arrivati con il contagocce” ha detto Musumeci. Per cui “ci siamo attrezzati a cercare i ventilatori noi sul mercato con risultati che sono stato assai deludenti dopo esserci rivolti ad una cinquantina di aziende. Attendiamo risposte anche dall’estero”. Se non ci saranno novità, verranno utilizzati quelli delle sale operatorie, come avviene da qualche giorno in Lombardia. Anche sulle mascherine col filtro, che piacciono tanto ai medici, non ci sono risposte confortanti: il carico cinese non le prevedeva e reperirle in questa fase storica, col mondo che le reclama, è quasi un miraggio.

Tuttavia, la Regione non è esente da responsabilità. Un paio di giorni fa, “Repubblica” ha portato alla luce un “piano per le pandemie”, sottoscritto nel 2009 dall’assessore alla Salute, Massimo Russo, e rimasto inattuato per un decennio. Al suo interno, in modo dettagliato, erano indicate tutte le procedure da seguire semmai si fosse presentata una circostanza epidemica come quella attuale, tra cui l’individuazione di reparti, medici e strutture per contrastare il virus. E, chiaramente, la previsione d’acquisto di mascherine e dispositivi di protezione, dopo aver stimato il fabbisogno degli operatori. Non se n’è fatto nulla.

Un’altra emergenza siciliana e attualissima è relativa ai tamponi. La nostra Regione è una di quelle che ne fa meno: la media, dal 3 marzo al 3 aprile è di 592 test al giorno rispetto agli oltre 4 mila della Lombardia. Nel complesso sono 21 mila (con un 10% di “positivi”). Questo elemento, unito all’ingente numero di rientri dal Nord (ufficialmente 42 mila), ripropone il tema dei contagi sommersi. I Cinque Stelle lamentano l’attivazione di pochi laboratori analisi – una ventina a livello regionale – e la mancanza di reagenti per completare le analisi. Musumeci, più o meno, ha ammesso il problema: “Le società che li realizzano – ha spiegato – sono quasi tutte straniere, fatta eccezione per una limitata produzione nazionale che deve servire tutto il Paese; da qui l’impatto più lento delle analisi, che si articola per circa quattro ore per ciascun gruppo di campioni”. Questo è uno degli aspetti che costringe alla cautela più assoluta, a spostare sempre più in là nel tempo (dopo il 10 aprile) il tanto temuto picco. Anche se i numeri sono costanti e la curva non si è mai impennata.

A meno di un’esplosione inattesa, la rete ospedaliera siciliana reggerà. I ricoverati in Rianimazione, a ieri, sono 74 rispetto per 213 posti letto allestiti in prima battuta. E che entro un paio di settimane diventeranno 605 (sanità privata inclusa). Aumenteranno di 8 unità ad Agrigento (fra Canicattì e Licata) rispetto ai 16 attuali; di 20 all’ospedale Sant’Elia di Caltanissetta; di 57 nel Catanese (dove ce ne sono già 82); di 6 all’Umberto I di Enna (che ne conta 16); di 74 a Messina, dove il Policlinico sarà attrezzato con ulteriori 39 postazioni (rispetto alle 21 attuali). E ancora: a Palermo i posti di terapia intensiva destinati a pazienti Covid sono “appena” 34 ma diventeranno 162 (dei nuovi, 45 verranno ricavati all’Ismett); a Ragusa si passa da 10 a 40; a Siracusa da 8 a 30; a Trapani da 14 a 35 (entra in funzione il “Paolo Borsellino” di Marsala).

Ma anche la degenza ordinaria, grazie alla trovata dei Covid Hospital, gli ospedali “dedicati”, è più o meno al sicuro. Entro la scadenza del 20 aprile, infatti, i posti a disposizione saranno 2.800 in tutta l’Isola, rispetto a un numero di ricoveri “semplici” che oggi tocca le 553 unità. Sono previsti: 119 nuovi letti ad Agrigento, 115 a Caltanissetta, 529 a Catania, 106 ad Enna, 298 a Messina, 453 a Palermo, 80 a Ragusa e 132 a Siracusa. Mentre a Trapani i 145 posti di degenza ordinaria sono già tutti attivi. Non resta che prepararsi a combattere. Con un po’ di buona sorte, che alla Sicilia non è mai mancata, anche la nostra sanità zoppa sarà in grado di parare il colpo.