Schifani non si rassegna e continua a parlare, ostinatamente, di “traghettatore”. Lo ha detto, intercettato dai cronisti, pochi minuti prima dell’elezione di Antonio Tajani come nuovo segretario di Forza Italia, in attesa del congresso fissato per il 2024. La scelta del Capo della Farnesina alla guida del partito, per garantire unità e coesione dopo la scomparsa di Berlusconi, non è stata accolta con favore – non è un mistero – dal presidente della Regione siciliana, che nelle scorse settimane aveva avanzato qualche velleità sul ruolo di coordinatore del Mezzogiorno. Quando sembrava che il controllo del partito finisse in mano alla quasi-moglie del Cav., Marta Fascina. Da quel momento è cambiato tutto e le morte del leader ha rivoluzionato l’universo forzista.
Chissà quando svanirà l’effetto rebound dell’addio a Silvio cosa ne sarà di questa classe dirigente, che in tempi non sospetti ha mostrato di essere ben poco senza il suo fondatore. Figurarsi ora. In questo gap spazio-temporale che aliena Forza Italia, s’infila un’altra questione siciliana. Perché, va detto, l’unico a complimentarsi con Tajani per l’ottenuta carica di segretario è chi, nell’Isola, riveste tuttora il ruolo di principale “oppositore” dentro il partito a trazione schifaniana: cioè Marco Falcone. “Abbiamo vissuto una giornata storica che, in pieno spirito berlusconiano, ci proietta in avanti”, è stato il commento dell’attuale assessore regionale all’Economia. E poi la precisazione, che suona come una presa di distanza, o tutt’al più la demarcazione di un confine non soltanto geografico: “La Sicilia e la provincia di Catania hanno partecipato con una folta e qualificata delegazione. Il ministro Tajani è la figura più autorevole a livello internazionale, ma anche la più rappresentativa della storia di Forza Italia e dei programmi che intendiamo portare avanti. E’ l’uomo giusto per dare voce e concretezza a Forza Italia in questo passaggio storico”.
A chi sa leggere fra le righe non sarà sfuggito il mancato riferimento a Schifani e al partito siciliano. Qui si parla di partito catanese perché Falcone è il commissario di Forza Italia nella provincia etnea. Mentre a Palermo tira un’altra aria. Dopo aver osteggiato in lungo e in largo Micciché – con una tempra riconosciuta anche dal rivale – Falcone è il primo a poter testimoniare che la visione di partito leaderistico applicato alla Sicilia ha portato solo guai. Si è visto alle ultime Amministrative, dove l’assessore al Bilancio ha dovuto mandare già due bocconi amari: rinunciare a un assessore in giunta nella sua Catania, a beneficio del rivale interno Nicola D’Agostino (nonostante un risultato elettorale di gran lunga migliore); e apparentarsi con l’indigesto Roberto Barbagallo, ad Acireale, dopo aver fallito il blitz al primo turno con un proprio candidato di bandiera (che non era però quella di FI). Metteteci in mezzo le beghe personali – la Finanziaria, la Corte dei Conti, le Camere di Commercio, la revoca della delega alla Programmazione, l’arrivo di Armao come esperto sui fondi extraregionali – e ricostruirete il quadro. Che ha un placido riflesso, oltre che sull’azione di governo, sull’attività del partito. E sulla sua compattezza, venuta meno anche a Siracusa, e in modo plateale.
Affidare il partito di Schifani alle nobili cure di Marcello Caruso (uno che fino a poco tempo fa guidava Italia Viva a Palermo e provincia), non è esattamente una dichiarazione di grandezza. Tanto meno d’inclusione. L’unico ad aver beneficiato di una discreta accoglienza è Giancarlo Cancelleri, ex 5 Stelle, che oggi sciorina post per confermare la propria lealtà ai nuovi colori. Per il resto si è seminato vento e si sta raccogliendo zizzania. Agli esperti di aneddotica, non sarà sfuggita l’assenza di Schifani all’appuntamento del cimitero dei Rotoli, ieri a Palermo, dove sono state abolite le prime 72 tombe abusive. Sapete, piuttosto, chi c’era? Da un lato l’ex governatore Nello Musumeci, che si è speso in fiumi di complimenti per l’amministrazione comunale (e per se stesso: “Il mio primo atto da ministro è stato la dichiarazione di una condizione di emergenza, la messa a disposizione di una struttura commissariale per andare in deroga alla normativa vigente, una somma di due milioni di euro”); e dall’altro il sindaco, il professore Roberto Lagalla, con al fianco alcuni dei suoi assessori.
Tra cui Andrea Mineo, un altro della black list di Schifani, che la nuova Forza Italia avrebbe voluto fuori dalla giunta perché non più rappresentativo dei quadri dirigenti (in pratica, è amico di Micciché). La pressione esercitata su Lagalla per escludere Mineo e Rosi Pennino dalla squadra di governo, ha finito per indisporre anche il sindaco, che dopo aver chiuso il telefono in faccia alle chiamate insistenti dei discepoli di Renato, ha rinviato la questione alle prossime settimane: non prima dell’approvazione del bilancio.
Ma il punto è un altro: come fa, con queste premesse, Forza Italia a essere inclusiva? Chi glielo dice a Tajani, scarso estimatore del correntismo, che il tentativo di imporre il pensiero unico, nell’Isola, ha già prodotto una lacerazione nel profondo? E come fai, se ti chiami Tajani e godi di una così grande autorevolezza, ad assicurare maggiore impegno per il Sud, quando noti che l’azione di governo è ferma da otto mesi fa e all’Assemblea regionale non succede nulla di rilevante? Neppure la teoria dei “voti presi al Sud”, sbandierata da Schifani per pretendere spazio, regge più: alle ultime Amministrative, esclusa Catania, per Forza Italia il crollo è stato verticale: a Ragusa è andata sotto l’1 per cento, a Siracusa è passata dal 14 al 7, anche a Trapani ha combinato pochissimo. E’ questo il partito che tende al futuro e vorrebbe espandersi al centro?
Il vero centro, in Sicilia, è già appannaggio di Cuffaro e di Lombardo, che a ogni esibizione elettorale, confermano il valore del proprio carisma e la fedeltà dei propri adepti. Schifani, che un pezzo di Forza Italia aveva accolto come il salvatore della patria, al solo scopo di arrampicarsi al potere, invece si occupa di governare i rancori; di promuovere e di declassare; di dare voti agli altri senza mai occuparsi di se stesso e del proprio lavoro. Già, che ne pensa Tajani?