Al capezzale di Cosa nostra

L'ultimo super boss di Cosa Nostra, Settimo Mineo, è stato arrestato a dicembre. Il nostro direttore scrive per "Il Foglio"

Ma che fine ha fatto la mafia di questa Palermo “regia e conventuale”, accerchiata sui monti non da un bivacco garibaldino, come nei giorni del Gattopardo, ma dall’”iracondo fuoco” di polizia e carabinieri, di magistrati e guardia di finanza? Se, per un miracolo letterario, fosse possibile paragonare la decadenza di Cosa nostra all’agonia di un corpaccione malavitoso, si potrebbe dire con il Principe di Lampedusa che la mafia di questo inizio secolo comincia a somigliare sempre di più a “una centenaria trascinata in carrozzella” la cui massima aspirazione, alla fine della giostra, non è altro che quella “di ritrovare il proprio dormiveglia fra i suoi cuscini sbavati e il suo orinale sotto il letto”. Certo, così dicendo ti attireresti gli insulti corrivi e sguaiati degli zelanti guardiani dell’antimafia per i quali il mostro può essere al massimo silente ma non domo: “Avete visto? Vogliono fasciare con lane e felpe gli zoccoli maledetti dei cavalli dell’apocalisse”. Se poi però metti insieme le ultime, penose storie di boss e picciotti, o le angustie nelle quali le cosche si sono ritrovate a vivere e a soffrire, non potrai che trarre una sola conclusione: che “tutto quel profumo di fiori d’arancio e di limone comincia a sapere di cadavere” e che le lenzuola dell’agonizzante cominciano ad apparire sudice: ci sono le bave, le deiezioni, le macchie di medicine.

Verrebbe da dire, e anche da ribadire, che “la mafia ha perso e lo Stato ha vinto” come ha fatto l’altro giorno a San Macuto, davanti alla Commissione parlamentare presieduta da Nicola Morra, il procuratore di Palermo, Francesco Lo Voi. Per il quale, ci mancherebbe altro, c’è ancora un robusto reliquiario di nefandezze, di violenze e sopraffazioni. Ma i numeri, pitagoricamente, hanno la proprietà della giustizia: una proprietà secca, scarna ed eterna, di fronte alla quale inesorabilmente crollano miti e mitomanie, mistificazioni e allucinazioni. “La mafia c’è ancora”, ha detto. “non bisogna cedere nell’errore di pensarla sparita, ma è molto meno forte di quanto fosse negli anni Ottanta e Novanta. Non ci sono mai stati, nella storia della Repubblica, tanti capimafia in carcere con sentenza definitiva. Alcuni di loro all’ergastolo sono morti”. Una verità disarmante per quei professionisti dell’antimafia che sulla potenza di Cosa nostra hanno costruito fortune e carriere. Ma anche per tutta quella filiera di retroscenisti che nei talk show, ma anche nelle aule dei tribunali, hanno costruito il romanzo nero delle trame oscure e delle regie occulte, dei generali felloni e della trattativa tra alcuni funzionari infedeli dello Stato e i sanguinari boss corleonesi, quelli del calibro di Totò Riina e Bernardo Provenzano: tutti murati all’ergastolo e quasi tutti morti nelle patrie galere. Se trattativa c’è stata, di certo non gli ha portato bene. Ma tant’è. Oggi, al capezzale della mafia che lentamente muore, anche di stenti, ci sono proprio loro, i teorici della trattativa. Scrivono libri, girano in lungo e largo l’Italia, promuovono convegni e dibattiti, raccolgono cittadinanze onorarie, mobilitano scorte e presidi di vigilanza, si vestono da predicatori e da chierici vaganti. E lo fanno con il solo e unico scopo di diffondere il vangelo rovesciato di un’organizzazione criminale ancora onnipotente, che fattura milioni e miliardi di euro, che rastrella affari e commesse, che manipola appalti e tangenti, che monta e smonta, con cinismo e spregiudicatezza, governi e democrazie, giunte regionali e amministrazioni comunali. Ma per fortuna che, contro questo impero del male, ci sono loro: i coraggiosi, gli intrepidi, gli ardimentosi della società civile, i magistrati e i giornalisti dalla schiena dritta. Sia lodato il loro impegno, sia fatta la loro volontà: guai ad abbassare i toni, guai ad allentare la tensione, guai a pensare, lontanamente pensare di attenuare l’emergenza, anzi: la parola d’ordine è di inasprire ancora le pene, di stringere le maglie delle garanzie processuali, di svuotare e mortificare fino all’ultimo rantolo lo stato di diritto.

Ebbene sì. Per quanto assurdo possa apparire sta di fatto che al capezzale della mafia c’è, manco a dirlo, proprio quell’antimafia che vede sempre oltre il nerofondo della mafia, che sospetta depistaggi e collusioni con l’orrendo potere politico e che in ogni processo vede sempre, dietro ogni verità apparente, una verità nascosta perché inconfessabile. E’ l’antimafia dei puri e duri, di quelli che gridano al complotto e amano le forche, dei giudici che diventano reverendissimi inquisitori, degli investigatori che si fanno sbirri e spavaldamente lanciano, come il poliziotto di Graham Green, sfide all’ultimo cappio: “Possiamo arrestarne più di quanto voi giornalisti possiate scriverne”. Ma poi, spenti i fuochi dell’arroganza e della spavalderia, ecco arrivare nude e crude le immagini delle ultime retate; o, se preferite, delle ultime “brillanti operazioni”, come amano chiamarle marescialli e brigadieri. E sono dolori per quelli che vorrebbero ancora la mafia potente, inespugnabile e soprattutto capace di dare ancora scacco matto allo Stato.

Il primo mistero doloroso si ritrova incarnato nel boss dei boss, se proprio vogliamo assegnargli questo ruolo. L’uomo che stava per ricostruire, pensate un po’, la cupola di Cosa nostra è un anziano signore di ottant’anni, ufficialmente gioielliere, erede di una famiglia purtroppo bruciata dalla storia e dal sangue. Si chiama Settimo Mineo. Nel 1976 assistette impotente all’assassinio del fratello Antonino e nel 1982 scampò a un agguato nel quale fu ucciso un altro fratello, Giuseppe. Il giorno dell’arresto i carabinieri lo hanno prelevato da un tugurio di sessanta metri quadrati, un buco maleodorante ridotto in condizioni talmente pietose da invocare l’aiuto dei servizi sociali. Quali trame oscure avrebbe potuto ordire un mammasantissima di siffatta levatura? Quali appalti e quali complicità avrebbe potuto intrecciare per garantire ricchezze e bella vita agli affiliati degli otto mandamenti del capoluogo e dei sette mandamenti affidati ai paisanuzzi della provincia?

Stando all’ultimo rapporto della Dia, direzione investigativa antimafia, i mafiosi palermitani sarebbero, tra boss e picciotti, 2280. Così distribuiti: 1540 in città e 740 in provincia, per un totale di 81 famiglie. Per garantire a ciascuno un reddito di manovalanza non inferiore a 500 euro al mese, giusto per pagare la spesa al supermercato e qualche bolletta della luce o del gas, ma non le parcelle agli avvocati, il venerabile boss Settimo Mineo avrebbe dovuto incassare tra estorsioni e altro malaffare più di un milione di euro al mese. Ma con quali traffici?

Le intercettazioni, sempre più estese e all’un tempo sempre più invasive, rivelano un crescente malumore interno alle cosche e palesemente dicono che Cosa nostra ha perso di fatto il senso degli affari. Per carità, anche se monopolizzato da ‘ndrangheta e camorra, il traffico della droga rende ancora qualcosa ma il flusso incontrollato della cosiddetta moneta mansa (cioè mansueta, perché arriva senza fatica) non c’è più da tempo. E la conferma viene dalle ultime inchieste: gli investigatori si imbattono in attività sempre più miserabili. La mafia cerca di nascondersi dietro pub, ristoranti, persino dietro gli autobus scoperti che portano in giro i turisti o dietro uno spelacchiato negozio di fiori. Ma oltre non va. Tanto che la crisi ha spinto da almeno dieci anni le cosche a rivedere al ribasso i compensi. E’ finita la pacchia, direbbe Matteo Salvini, ministro dell’Interno. E non da ora. Già nel 2005 dal libro mastro custodito nelle mani del cassiere Giuseppe Di Fiore, arrestato nell’operazione Grande Mandamento, si è appreso che solo a due o tre boss venivano assegnate cifre considerevoli: 25 mila euro al mese a Bernardo Provenzano, latitante nelle campagne di Corleone; e 5 mila alla famiglia di Leonardo Greco, ergastolano e capo indiscusso di Bagheria. Gli altri dovevano accontentarsi dei rimasugli, delle briciole. Tanto che proprio quell’anno è nata, nel linguaggio obliquo della malavita, la categoria dei muzzunara, cioè dei picciotti così derelitti che, se proprio volevano una boccata di fumo, potevano solo raccogliere da terra i mozzoni delle sigarette. Ma l’antimafia elitaria, quella adusa a tracciare grandi scenari e sofisticate teorie sulle terre di mezzo – lì dove la politica si fa criminale e dove la criminalità si fa politica – ovviamente non ci sta. E puntualmente descrive l’altra faccia della luna, the dark side, il lato oscuro, quello che solo pochi iniziati riescono a vedere e a decifrare.

La dotta analisi parte dai dati forniti dall’Agenzia nazionale per la gestione dei beni confiscati e alla quale risultano censiti 16.696 immobili fra terreni e fabbricati, 7.800 beni finanziari, 2.492 beni aziendali. Un patrimonio che si attesta oltre i 30 miliardi di euro, quasi una finanziaria del governo centrale. Un valore cartaceo e nulla più: statisticamente, dopo il passaggio all’amministrazione giudiziaria, le società sequestrate alle mafie finiscono per il 95 per cento in liquidazione. Cioè al macero. Ma questo all’antimafia da passeggio non importa molto. Interessa di più il valore nominale di quei beni che per il 30 per cento – cioè per un totale di oltre 10 miliardi – si trovano a Palermo e provincia, nel regno che, prima dell’arresto, ricadeva teoricamente, molto teoricamente sotto il controllo del boss Settimo Mineo. Bene. Nel corso di un incontro su “Le infiltrazioni delle mafie nelle imprese legali” che si è tenuto il 12 febbraio scorso, il procuratore generale di Palermo, Roberto Scarpinato – al quale sono da ricondurre le prime inchieste sui Sistemi criminali, poi confluite nel maxi processo sulla Trattativa – ha sostenuto che “nei paesi europei è stato confiscato l’1 per cento del fatturato globale delle mafie” e che dunque il rischio confisca è prossimo allo zero. A parte l’avventatezza del dato principale – chi ha stabilito l’ammontare del fatturato mafioso e in base a quali criteri? – dall’impeccabile ragionamento di Roberto Scarpinato si dovrebbe trarre una conclusione che per la mafia potrebbe anche essere trionfale. Se è vero che i beni confiscati a Palermo – 10 miliardi – sono l’1 per cento del fatturato la matematica dovrebbe indurre a pensare che l’ammontare complessivo dei soldi incassati da Cosa nostra all’ombra di Monte Pellegrino dovrebbe sfiorare la vertiginosa cifra di 1000 miliardi. E dove è finito questo ipotetico tesoro?

Nessuno lo sa. Non lo sa Settimo Mineo, il vecchio boss, catturato in una stamberga e finito in galera con i suoi acciacchi e i suoi malanni. Non lo sanno i boss dei quindici mandamenti, alle prese con l’urgenza di fronteggiare situazioni sempre più disperate, soprattutto a San Lorenzo, dove gli affiliati sono 322, o a Brancaccio dove se ne contano 313. Non lo sa la Guardia di Finanza che scandaglia bilanci e conti correnti alla ricerca di capitali imboscati e riciclati. Non lo sanno nemmeno i carabinieri di Corleone che, dopo anni di indagini su parenti e consanguinei di Totò Riina, il capo dei capi, sono riusciti a intercettare beni per non più di un milione e mezzo di euro.

Diciamolo: siamo di fronte a una mafia stracciona. Il cui prestigio, per un capriccio del destino – o per un paradosso della storia, decidete voi – viene tenuto in vita dall’antimafia rampante dei puri e duri. Di quelli che vedono non il dritto ma il rovescio. Quelli del romanzo nero. Quelli del dark side of the moon.

Giuseppe Sottile :

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