L’aula balcanizzata di fronte alle norme proposte dal governo, specie quelle dei fedelissimi di Musumeci (gli assessori Armao e Messina) è la plastica dimostrazione di ciò che è stata questa legislatura. Ma soprattutto di ciò che potrebbe rappresentare la prossima, se a palazzo d’Orleans venisse confermato questo assetto. Cioè quello di un centrodestra a più teste, una specie di “mostro”, dove a comandarsi e imporsi sono sempre gli stessi. E dove gli altri tengono la candela finché perdono la pazienza (e la speranza). Dalla Finanziaria non ci si poteva aspettare nulla di più: un insieme di leggi impacchettate senza alcuna strategia, con il mero intento di spostare l’asticella un po’ più in là in attesa degli appuntamenti elettorali, che ha avuto dall’aula la risposta piò ovvia.

Ma qui non è l’aula che manda in frantumi il disegno del governo. Al contrario, è il governo che ha preparato la strada. Che ha sperimentato in questi anni il gusto di sopravvivere senza una maggioranza. Che ha deciso di fare le cose senza il coinvolgimento dei partiti e, di conseguenza, rinunciando alla collaborazione con Palazzo dei Normanni. Ed è stato addirittura peggio quando il presidente Musumeci, nello strenuo tentativo di affermare la sua buona condotta (amministrativa e morale) ha dato addosso ai deputati etichettandoli come “scappati di casa”, autori di un “atto di intimidazione” nei suoi confronti quando a gennaio si presero una rivincita, facendolo arrivare al terzo posto nella votazione dei grandi elettori per il Quirinale.

Il risultato di questi giorni, il tiro al bersaglio organizzato dai franchi tiratori sulle proposte di Musumeci, Messina e Armao, è figlio di una gestione spiccatamente familistica e familiare della cosa pubblica. Del governo dei pochi. Del cerchio magico che non è stato abbastanza bravo a distribuire vantaggi per tutti, ma prebende per pochi. Anche nel rapporto stenografico del giornalista de ‘La Stampa’, utile a sventare la smentita di Micciché dopo la sua intervista colorita, sono emersi i veri motivi della rottura. L’intervista andrebbe depurata dai suoi picchi rabbiosi per essere compresa a fondo: “In Sicilia Forza Italia è sempre stato il primo partito – spiegava il presidente dell’Ars – Può essere che ora Fratelli d’Italia ci battano, perché hanno una lista che di fatto porta tutto il peso del governo regionale su Palermo, perché tutti gli assessori sono con loro. Un livello di potere che tu non puoi capire – esplicita, rivolgendosi al giornalista -. Noi in Assemblea li abbiamo un po’ stoppati, però hanno un potere infinito. Io solo una brioche col gelato posso promettere”.

La spartizione dei posti di sottogoverno, il sistema delle nomine (a trazione catanese), gli schiribizzi di un cerchio magico che si è autoalimentato in ogni maniera possibile (vedi il caso Troina) sono alcuni esempi di una gestione che ha creato il vuoto intorno a Musumeci. Che l’ha messo nelle condizioni di spadroneggiare, ma di farlo da solo. Senza un supporting cast che non solo gli consentisse di arrivare al bis, ma anche solo a gestire con dignità l’ultima fase della legislatura. Si parla di tanto di maggioranza che non c’è, ma la maggioranza non esiste da un pezzo. Anche nel corso delle ultime due Leggi di Stabilità il governo era andato sotto paurosamente. Aveva fatto emergere un grado di corrosione preoccupante. E qualcuno, vedi La Russa, continua a recitare la favoletta del “centrodestra unito”. Non è unito e non potrà mai esserlo a queste condizioni.

Le fondamenta sono pericolanti, come si evince (anche) dalle dichiarazioni dell’altro giorno di Luca Sammartino. “Le cose migliori di questo quinquennio sono arrivate dal lavoro dell’Ars, di tutta l’Ars, compresi quegli “scappati di casa” con cui per “motivi di igiene” il presidente della Regione non parla – ha detto il deputato leghista a ‘La Sicilia’ -. La politica, la buona politica, è rispetto altrui, dialogo e sintesi, anche con le opposizioni. Chi si arrocca dentro il palazzo, ostentando una superiorità morale tutta da dimostrare, si mette dalla parte del torto. E il risultato è l’occupazione unilaterale di ogni millimetro quadrato di potere per il cerchio magico, a fronte di un fatturato amministrativo pari allo zero assoluto”. Una posizione ribadita a più latitudini. All’interno della Lega ci sono state le ferme contestazioni di Caronia e Pullara sul fronte della sanità (e il rifiuto di Salvini a stendere un red carpet per il governatore uscente). Gli Autonomisti di Lombardo, guidati in aula da Roberto Di Mauro, erano a arrivati a chiedere una mozione di censura per le intemperanze di Manlio Messina. Gianfranco Micciché ha contestato la gestione della sanità in epoca Covid, ma anche dopo (ad esempio sulla gestione del Pnrr).

E poi c’è la figura di Armao – che non ha ancora mantenuto la promessa di candidarsi al Consiglio comunale di Palermo – che ha proposto delle Finanziarie audaci e senza visione, spiattellate a Sala d’Ercole all’ultimo minuto, senza nemmeno la possibilità di un esame preventivo in commissione Bilancio, dove un minimo il parlamento avrebbe potuto esercitare il proprio ruolo. Sistemare le cose, predisporre le coperture finanziarie. E invece niente. La manovra è entrata in aula con gran scalpore. Ma il parlamento è stato stanco di subire: non accetta veti, condizionati, arroganze. E si sta dimostrando capace di fare a fette i provvedimenti che non gli vanno a genio: dalle nuove norme per esercitare il controllo sulle partecipate, passando dalla card di 40 euro per agevolare l’accesso ai luoghi della cultura. Provvedimenti pensati e architettati da membri della (ex) coalizione di governo, non dalle opposizioni. Ecco, dopo due anni di assoluta inconsistenza anche numerica (nonostante l’adesione degli ex grillini di Attiva Sicilia), di riforme mancate, di liti e spaccature profonde, la Sicilia potrebbe davvero sopportare altri cinque anni così?