La prima esca per raffreddare gli animi di una coalizione in crisi è stata lanciata: il rimpasto. In realtà è un segnale politico (ma non è l’unico) per evitare che il centrodestra – uscito ammaccato dalla manovra finanziaria – inizi davvero a scomporsi. L’orizzonte temporale è già fissato per metà gennaio, alla ripresa dei lavori dell’Ars. Il contenuto, invece, è tutto da negoziare. E soprattutto da “pagare”.

La Finanziaria è passata, ma a prezzo di un voto risicato (appena 29 favorevoli), di assenze pesanti e di un numero di franchi tiratori che racconta meglio di qualunque dichiarazione lo stato di salute della maggioranza. Da qui la necessità di “rinsaldare”, parola che torna ossessivamente nelle dichiarazioni dei vertici di coalizione. A cominciare da quelle del presidente dell’Ars, Gaetano Galvagno, che durante gli auguri di Natale ha messo nero su bianco la linea ufficiale: rimpasto fisiologico, rimpasto strategico, rimpasto utile a garantire che la maggioranza del 2022 sia la stessa che accompagnerà Schifani fino al 2027. Tradotto: un’aggiustatina ora per non arrivare sfaldati alla prossima campagna elettorale.

Ma se la cornice è condivisa, il quadro è tutt’altro che definito. Perché ci sono posizioni da cui è ormai impossibile indietreggiare, e altre che restano terreno di scontro aperto. Il punto più delicato riguarda Forza Italia, il partito del presidente. Qui la richiesta è secca: fuori i due assessori tecnici, Alessandro Dagnino all’Economia e Daniela Faraoni alla Salute. Una scelta che non è nuova – se ne parla almeno dall’autunno – ma che adesso diventa dirimente. “Ha fatto un grande lavoro – ha detto Schifani riferendosi a Dagnino, durante gli auguri all’Astoria Palace – è un grande tecnico, un professionista di spessore e un grande docente. Lui è un tecnico prestato alla politica, non è un politico. Poi c’è la politica, l’esigenza di rappresentanza politica”. I berlusconiani non intendono più sostenere una giunta in cui le caselle chiave siano affidate a figure considerate estranee al circuito politico e, soprattutto, non controllabili in vista del congresso regionale che incombe. Il rimpasto, per FI, non è solo un fatto di governo: è l’anticamera di una resa dei conti interna.

A rendere tutto più esplosivo è l’agenda nazionale. A metà gennaio a Palermo è attesa la visita di Antonio Tajani, ufficialmente per incontrare i forzisti delusi, ufficiosamente per contare le tessere. Il congresso regionale non sarà una formalità, e sullo sfondo si muovono ambizioni più grandi: la partita per la successione nazionale, con Occhiuto in rampa di lancio, e quella siciliana, dove la figura di Marcello Caruso viene giudicata sempre più debole, schiacciata com’è sul ruolo di segretario particolare di Schifani più che su quello di leader politico (“E’ solo un funzionario”, le parole di Marco Falcone). In questo contesto, lasciare due assessorati cruciali in mano a tecnici è diventato indigeribile. Oltre ai ‘murati vivi’, che adesso hanno ripreso a respirare, preme pure Totò Cardinale: arriva dall’ex ministro delle Comunicazioni, oggi riferimento di Edy Tamajo, la richiesta di rivedere la composizione della giunta. Una pretesa che molti del partito non hanno visto di buon occhio.

Poi c’è il fronte autonomista. Il Mpa di Raffaele Lombardo, sulla carta federato con Forza Italia ma sempre più vicino alle posizioni dei patrioti di Fratelli d’Italia, inizialmente aveva chiesto l’azzeramento; una mossa che, nelle parole del suo leader, avrebbe evitato “azioni di giustizia sommaria” dopo il terremoto giudiziario che ha investito la Democrazia Cristiana. Oggi Lombardo nega di voler una casella in più – la pretesa era stata avanzata all’indomani delle Europee e dell’elezione di Caterina Chinnici – ma la richiesta di fondo resta: un reset politico che ridia senso all’alleanza. Un’ipotesi che Schifani considera impraticabile, ma che continua a incombere come minaccia latente.

E proprio la Dc rappresenta una delle incognite maggiori. Formalmente fuori dalla giunta dopo l’inchiesta che ha coinvolto Totò Cuffaro, ancora ai domiciliari con l’accusa di corruzione, rivendica però un ruolo pieno nella maggioranza. In alternativa correrà fra le braccia di Cateno De Luca (non si capisce se per rafforzare il governo – come sostiene il modicano Abbate – o vendicarsi). Il problema è che il suo eventuale rientro aprirebbe una falla politica difficilmente gestibile, soprattutto sul piano dell’immagine, della questione morale. Se alla Dc verrà negato il ritorno in giunta, resteranno libere due caselle, gli Enti Locali e la Famiglia: un bottino che fa gola a molti e che rende il rimpasto una partita a somma zero, dove ogni mossa scontenta qualcuno.

La Lega, dal canto suo, prova a sfilarsi dal gioco. La linea del segretario Nino Germanà è chiara: lasciare tutto com’è, confermare gli assessori (e come fai a mettere in dubbio Sammartino?) e rivendicare la legittimità della giunta uscita dalle Regionali. Una posizione che suona come un avvertimento: nessuna disponibilità a pagare il prezzo delle tensioni altrui.

Infine Fratelli d’Italia, il partito che più rischia di subire cambiamenti non per scelta politica ma per necessità giudiziaria. Se il Gup dovesse rinviare a giudizio per corruzione l’assessora al Turismo Elvira Amata, la sua uscita diventerebbe quasi obbligata. Un’eventualità che aprirebbe una nuova partita interna, con nomi già pronti a circolare e con effetti a catena anche a Roma. A prendere il posto dell’Amata sarebbe Emma Bucalo, che lascerebbe un seggio vuoto in Senato. Indovinate per chi? Francesco Paolo Scarpinato. Cioè l’attuale assessore ai Beni culturali, che andrebbe rimpiazzato.

In questo quadro, il rimpasto non è una riforma dell’esecutivo ma una manovra di sopravvivenza. Schifani lo sa bene: la sua maggioranza è attraversata da troppe linee di faglia per essere ignorate. La “riflessione” annunciata – che durerà lo spazio delle festività – è la prima esca gettata in acqua. Resta da capire chi abboccherà, e soprattutto chi presenterà il conto.