Il ritorno del dossier dei precari nella Finanziaria regionale – in discussione da lunedì all’Ars – non è un dettaglio tecnico. È un segnale politico. Prima i Comuni, poi i Pip. Prima la protesta dell’Anci, quindi il vertice a Palazzo d’Orléans e l’annuncio di 30 milioni in più per i trasferimenti agli enti locali. Subito dopo, l’impegno del governo a reperire risorse per aumentare le ore ai precari in servizio alla Sas, la partecipata della Regione guidata da un fedelissimo di Cuffaro: Mauro Pantò. La sequenza racconta una sola cosa: Renato Schifani è accerchiato.
I numeri dei Pip, un bacino di lavoratori precari che ha attraversato gli ultimi decenni, sono noti. Sono 1.853, tutti part-time, con contratti da 18,5 o 20 ore settimanali e stipendi che oscillano tra i 700 e gli 800 euro. Il governo ha parlato prima di un aumento di 3-4 ore, poi dell’ipotesi di arrivare a 24 ore settimanali. Per tutti. Ma servono risorse: cinque milioni per un intervento minimo, circa dieci milioni per una misura più strutturale. Ma oggi il punto non è soltanto sociale. Il punto è dove lavorano questi precari.
La Sas da anni rappresenta un bacino strategico di consenso e resta, nonostante i cambi di stagione, nell’orbita della Democrazia Cristiana di Totò Cuffaro. Mauro Pantò, candidato Dc alle Regionali, primo dei non eletti, è il presidente di una struttura che gestisce migliaia di lavoratori. Pantò non è indagato. Ma le intercettazioni che riguardano Totò Cuffaro restituiscono un’immagine plastica di come quel bacino sia stato considerato nel tempo: i Pip come manodopera, come leva amministrativa, come strumento di relazione. «Pantò ha preso tutti i Pip ora… un giorno te lo voglio presentare, perché magari se avete interesse che in un posto arrivino persone, ve le faccio mandare», dice Cuffaro ai rappresentanti della Dussman, la società che si sarebbe aggiudicata il servizio di ausiliariato all’Asp di Siracusa. Una frase che oggi torna d’attualità non per ragioni giudiziarie, ma per una coincidenza politica fin troppo evidente.
Il tema dei precari – che ha altri sponsor oltre alla Dc, sia ben chiaro – riemerge proprio mentre la Dc è formalmente fuori dalla giunta ma decisiva per la tenuta della maggioranza. Ed è qui che l’accerchiamento prende forma. Da un lato ci sono le opposizioni, che dopo il fallimento della sfiducia in Aula (Schifani ha resistito grazie al voto palese e a 41 “scudieri” farlocchi) preparano l’agguato sulla Finanziaria, riproponendo lo schema del voto segreto e puntando sui franchi tiratori. L’uscita dal confronto in commissione Bilancio e l’annuncio di una valanga di emendamenti in Aula vanno letti in questa chiave: logorare Schifani, rallentare la manovra, costringerlo a inseguire. Sgambettarlo non appena qualcuno dei “lealisti” del centrodestra decidesse di cambiare orientamento.
Ma il fronte più destabilizzante è quello interno. Fratelli d’Italia non si limita più a mugugnare: spinge, pretende, alza il livello dello scontro. Il partito è attraversato dagli scandali che coinvolgono il presidente dell’Ars Gaetano Galvagno e l’assessore al Turismo Elvira Amata, vicende che hanno inciso profondamente sull’immagine morale del governo regionale. Ma invece di abbassare i toni, FdI ha scelto di accentuare la pressione politica su Palazzo d’Orléans. La freddezza con cui il partito ha accolto il varo della nuova rete ospedaliera è stata il primo segnale. Un provvedimento centrale per l’azione di governo, trattato come un atto dovuto, senza difesa politica e senza entusiasmo. Piuttosto con la prospettiva di apportare cambiamenti (ma prima sarà il ministro Schillaci a sciogliere le riserve). Subito dopo è arrivata la proposta di istituire una (seconda) commissione di saggi per analizzare i curriculum dei Direttori generali delle Asp: una mossa che i musumeciani, da Razza in giù, non fanno mistero di non apprezzare.
Il punto di rottura, però, è arrivato con l’ultimatum di Luca Sbardella, il commissario del partito siciliano, sulla revoca di Salvatore Iacolino alla guida del Dipartimento di Pianificazione strategica. Una richiesta secca, pubblica, che ha il sapore di una prova di forza: o si cambia, o si apre un conflitto. Un messaggio indirizzato non solo a Schifani, ma all’intero equilibrio dell’esecutivo. La prima dimostrazione è arrivata con la manovra-quater, che lo scorso ottobre i franchi tiratori patrioti hanno fatto a pezzi, bocciando 17 delle 54 norme dell’articolato. In questo clima, la questione morale diventa un fattore politico. Non solo per le inchieste, ma per l’effetto cumulativo che producono la credibilità dell’azione dell’esecutivo ne esce indebolita, e ogni dossier sensibile – sanità, partecipate, emergenze – diventa un campo di battaglia.
Forza Italia, nel frattempo, non offre più la protezione di un tempo. I malpancisti crescono, il partito guarda oltre Schifani – basti analizzare le mosse degli eredi del Cav. sempre più propensi a rottamare i dirigenti – e la leadership appare meno solida. Anche Antonio Tajani è sempre più in bilico: il segretario, pertanto, non può e non potrà blindare la ricandidatura di Schifani. Al contrario, sono sempre più rilevanti le voci contrarie: da Mulé, che guida la campagna referendaria sulla giustizia per il “sì”, a Calderone, assai critico sulla gestione della sanità e del partito siciliano. Il coordinatore Caruso non ha mai stimolato un dibattito costruttivo, e la situazione è divenuta insostenibile.
In questo quadretto si inserisce la Dc, fuori dalla giunta (formalmente) ma ben dentro i gangli del potere, con tre nomine recenti nel sottogoverno e un peso determinante in Aula. È (anche) in questo quadro che va letto il ritorno dei Pip. Piazza, partecipate, partiti, opposizioni: tutti spingono, tutti chiedono, tutti testano la resistenza del presidente. La Finanziaria, ancora una volta, non è solo una manovra, è una resa dei conti politica. E se il governo troverà i soldi per i Comuni e per i precari, non sarà solo per senso di responsabilità. Sarà perché, in questo momento, Schifani non può permettersi di perdere altri pezzi.


