Doveva finire così. Ognuno nella propria casella. La conferenza delle Regioni a maggioranza ha dato parere favorevole all’autonomia differenziata. Si può procedere verso quella che qualcuno definisce “la secessione dei ricchi”, con il consenso del Nord che porta a casa un bel risultato, scippando diritti e aspettative al resto del Paese e della destra del Sud che, rimangiandosi riserve e critiche, lascia cadere la pretesa di subordinare il sì alla definizione di taluni aspetti del disegno di legge, almeno per attenuare l’impatto sul futuro delle loro comunità e per salvare la faccia. Chi comanda non è stato a sentire, non li ha presi sul serio e ha preteso che il consenso fosse pieno e senza alcuna condizione. Ha voluto che si smettesse di chiedere garanzie e ci si inquadrasse. Così non ha potuto negarlo ovviamente neppure Schifani quel consenso, come tutti gli altri suoi colleghi meridionali della sua parte.

Ed io non mi sento di dare addosso al presidente della Regione. Governa con il sostegno dei partiti che hanno imposto l’autonomia differenziata, con la quale vogliono migliorare la qualità dei servizi, farsi una loro scuola e una loro sanità, rendere più ricca e più facile la vita dei suoi concittadini, dare un impulso ulteriore alla crescita economica, approfondire il solco con il Meridione. Non poteva Schifani, come non potevano i suoi colleghi della Calabria e della Sardegna, per citarne alcuni, compiere un atto di eroismo, ribellarsi ai loro dante causa. Non erano in condizioni di fare muro e di dire che no, loro, alla fedeltà, all’appartenenza, alle carriere preferiscono la difesa delle comunità che governano e che la “secessione dei ricchi” se la facessero, almeno senza pretendere l’accordo degli scippati.

Sarebbe stato nobile, giusto ed eroico, ma l’eroismo spesso ottiene il premio alla memoria e sopravvivere risulta sempre preferibile. Tanto, presto i cittadini si scordano le cose, e per quelli del Sud non è vero che chiù scuru di mezzanotte un po’ fare.  Lo può fare e loro, abituati, si adatteranno ad un buio più fitto.

Nei miei ricordi, che arrivano lontano, non è mai successo del resto che il Mezzogiorno si sia unito, come si dice in modo trasversale, superando le differenze politiche, per condurre una battaglia in difesa del territorio. In sua difesa, ho memorie di scaramucce, di solenni dichiarazioni di principio, ma al dunque, prima o seconda Repubblica, alla fine tutti ai loro posti. Magari consapevoli di concorrere a danneggiare le loro comunità, come lo sono di certo, al di là di ciò che dicono, in questa occasione i presidenti delle Regioni meridionali. Che tuttavia salvano le maggioranze che li sostengono, confermano l’appartenenza. Qualcuno lo ha chiamato ascarismo. Più semplicemente è il tradizionale rapporto tra i forti e i deboli, tra i ricchi e i poveri. Con il voto della conferenza delle Regioni il treno dell’autonomia differenziata ha raggiunto un’ulteriore stazione in direzione di quella d’arrivo che resta ancora lontana e tuttavia i macchinisti hanno carbone e determinazione per raggiungerla. Un tempo i leghisti immaginavano che la secessione dovesse avvenire in modo traumatico con la rottura dell’unità nazionale, con il superamento della Repubblica “una e indivisibile”, con la creazione di due entità statuali e, infine, con la bandiera da usare per alcune parti anatomiche. La secessione ora avviene con modalità per nulla dirompenti, sul piano formale almeno, evitando di schierare i trecentomila armati che Bossi era pronto a mobilitare qualche anno addietro. Si preferisce una procedura parlamentare un po’ farraginosa ma per nulla cruenta, una soluzione che contenta in pieno ovviamente i leghisti, che al folklore, alla frattura politica e istituzionale, hanno preferito ciò che conta, gli “sghei”, e hanno trovato il supporto dei loro alleati forzisti con i quali condividono il controllo del Nord e di Meloni che ama tanto la nazione da volerne più di una, magari in cambio del presidenzialismo.

Alla fine, mettendo insieme queste due brillanti idee, verrebbe fuori un assetto statuale scombiccherato che, si pensa, di poter tenere unito attraverso i poteri dell’uomo o della donna forti e soli al comando.

Può darsi che l’autonomia differenziata e ciò che può seguire non gioverebbero al Paese, almeno a tutto il Paese. Nel tempo breve di certo giovano a questa maggioranza che i voti al Sud li trova comunque perché ai “sudisti” è più facile confondere le idee, abbacinarli, indurli alla sindrome di Stoccolma. E poi, almeno finora, quelli che vogliono la secessione non hanno trovato ostacoli consistenti in un’opposizione debole e in certi passaggi perfino complice. Una complicità che viene da lontano, dalla improvvida riforma del titolo V della Costituzione del 2001, quando Bossi era una “costola” della sinistra e D’Alema, autore di questa straordinaria boutade, voleva inseguire i leghisti sul loro terreno. Più recentemente, nel 2017, Bonaccini, quando fu avviato il processo, magari con minore bulimia nella richiesta delle materie da trasferire, ma dandogli di fatto forza e credibilità, schierò la sua Emilia-Romagna accanto al Veneto e alla Lombardia.  Quella scelta non è riuscito a farla dimenticare del tutto nelle recenti primarie del Partito democratico e sicuramente non gli è giovata anche se ha cercato di correggerla. Nel febbraio del 2018, a pochi giorni dalle elezioni nazionali, il governo presieduto da Gentiloni sottoscrisse una dichiarazione di intenti con le regioni del Nord dando un’ulteriore bollinatura, un’approvazione all’autonomia differenziata.

Tra quelli che ora gridano allo scippo Conte, il capo dei Cinque stelle, da presidente del Consiglio prima maniera, casacca giallo-verde, nel 2019, in una lettera ai presidenti di Lombardia e Veneto scriveva: “Per me l’autonomia non è una bandiera da sventolare ma una riforma che farà bene a voi e all’Italia intera”. Ora in questo scombinato contesto volete che Schifani facesse la rivoluzione, abbandonasse il suo schieramento? Che si sentisse vincolato dal documento approvato unitariamente dall’Assemblea nel 2018? Quello subordinava il parere favorevole al disegno di legge alla definizione dei livelli essenziali delle prestazioni, alla garanzia della coesione economica, sociale e territoriale, a parametrare il trasferimento delle risorse sulle materie che passano dallo Stato alle Regioni ai fabbisogni della comunità e non alla spesa storica, a realizzare la perequazione infrastrutturale, ad indicare dove prendere gli 80 miliardi stimati per realizzare la riforma. Di quel documento dell’Assemblea forse non si ricordano neppure i firmatari. Ognuno comunque, anche i deputati di Palazzo dei Normanni, è tornato nella propria casella se non ad applaudire almeno a stare in silenzio, quelli della destra e gli altri a protestare, ignorando di essere stati in qualche passaggio complici, non loro direttamente ma i loro referenti nazionali. La secessione non ha un solo padre. Ne ha diversi, principalmente la Lega spalleggiata dai suoi alleati e la sinistra che ha lasciato le impronte dell’improvvisazione, della furbizia e della fragilità politica e culturale in taluni passaggi del percorso avviato alcuni anni fa dal Veneto, dalla Lombardia e dall’Emilia-Romagna.