Dietro ogni slancio moralista, in Sicilia, c’è sempre un sacco vuoto di voti da riempire. E oggi che la Democrazia Cristiana di Totò Cuffaro è implosa sotto il peso dell’inchiesta della Procura di Palermo e della richiesta d’arresto per il suo leader, il sacco è pronto: sfilacciato, aperto, a disposizione dei più svelti. La “questione morale”, agitata con estremo ritardo dal presidente della Regione Renato Schifani – peraltro revocando due assessori senza macchia – serve solo a coprire il rumore di chi si prepara a raccogliere il bottino.
Per due anni Schifani ha coccolato Cuffaro come un alleato necessario e fedele: gli ha dato ascolto e rappresentanza in giunta, gli ha concesso il peso delle decisioni, gli ha garantito spazio a volontà nel sottogoverno e nelle nomine della sanità, talvolta in cambio di qualche umiliazione (sebbene indiretta, come la volta che Forza Italia evitò accuratamente di federarsi per le Europee). Poi, nel giro di una notte, ha riscoperto la purezza delle istituzioni. Ha revocato Albano e Messina parlando di legalità, rigore e trasparenza. E poche ore dopo, tanto per non correre rischi, è sceso a patti con i sei deputati rimasti orfani del segretario: niente più assessori, ma un aiutino (esterno) per garantire la stabilità della maggioranza.
La Lega non è stata da meno. Il Carroccio, che ha corteggiato Cuffaro per mesi, che aveva mandato il sottosegretario Durigon in pompa magna alla Festa dell’Amicizia di Ribera, che aveva persino immaginato liste comuni alle Politiche, si è dissolto all’alba dell’indagine. “Nessun accordo”, giurano ora da via Bellerio. Salvini ha fatto perdere le proprie tracce. E così l’alleato di ieri diventa l’appestato di oggi: un classico della politica siciliana, dove le alleanze sono solide come la carta velina.
E allora, la domanda che conta è una: chi si prenderà i voti di Cuffaro? Perché i voti non spariscono, migrano. E la Dc, senza il suo capo carismatico, è un guscio vuoto che non ha la forza di proteggere il proprio patrimonio elettorale. Il partito aveva prodotto nel 2022 un risultato sorprendente (oltre il 6%) con picchi stratosferici. Il primo a Ragusa, dove Ignazio Abbate – 12.525 preferenze – trascinò il simbolo al 12,84%, costruendo un feudo personale più che democristiano. Senza un partito strutturato alle spalle, i voti ragusani rischiano di disperdersi come sabbia. A meno che l’ex sindaco di Modica non si apparti in qualche altro schieramento e riesca a portarseli dietro.
Il secondo blocco è Agrigento, dove Carmelo Pace raggiunse 8.234 preferenze e la Dc sfiorò il 12%. Una miniera. Qui Forza Italia pregusta la preda: La Rocca Ruvolo – tra i contestatori più feroci del cuffarismo – e Gallo Afflitto hanno già messo il cappello su pezzi di territorio, pronti a inglobare tutto ciò che resta dell’universo Dc. Ci sono poi le zone grigie, più frammentate, ma non meno appetibili. A Siracusa, il partito non brillò (5,1%), ma il caso Auteri è emblematico: un bacino solido nonostante gli scandali, le inchieste, le accuse di clientelismo. Auteri, che nel 2022 mise insieme 3.400 preferenze, è un corpo estraneo ovunque vada: prima FdI, poi il Misto, infine la Dc. Anche qui il voto è personale, non identitario: si muove dietro la figura, non dietro un progetto.
Il Catanese è un campo di battaglia. La Dc prese il 5,2%, ma il dato è ingannevole: Messina (3.691 voti) è stato l’unico eletto per davvero, mentre Salvo Giuffrida fu trascinato dai voti di Cateno De Luca. In quell’area il vento lo comanda Luca Sammartino, il più forte alleato di Cuffaro nella fase ascendente del cuffarismo 2.0. È lui, oggi, il predatore naturale di quei consensi: la sua rete organizzativa è la più solida, il suo radicamento il più profondo. E conosce perfettamente gli orfani democristiani, giacché l’asse con Cuffaro ha resistito al tempo e agli sgarbi (come quello sul Consorzio di Bonifica di Palermo, emerso dalle intercettazioni).
Nelle altre province – Trapani (8,4%), Caltanissetta (8,2%), Palermo (6,4%), Messina (2,6%), Enna (1,2%) – la diaspora sarà più molecolare: i voti seguiranno i notabili locali, si appoggeranno ai partiti più strutturati, finiranno lentamente nei canali tradizionali del centrodestra, dove chiunque è pronto a riciclarsi con sorprendente elasticità. Nel frattempo Stefano Cirillo, segretario regionale della Dc, mette in guardia dal trasformare il partito in un “sistema criminale”, parlando di una tesi “grave, fuorviante e lesiva dei principi costituzionali”. Rivendica che le responsabilità penali “sono sempre e solo personali”, che dentro la Dc ci sarebbero “storie limpide, percorsi di legalità, persone che operano nel silenzio”. E conclude che “un partito non si può arrestare”. Parole che sembrano voler trattenere una diga che, però, ha già ceduto.
Il moralismo di questi giorni, infatti, è solo la cortina di fumo che precede la vera operazione: la redistribuzione del consenso. Una prateria smisurata si apre al centro. Chi avrà il coraggio di occuparla? Forza Italia scalda i motori. Sammartino si prepara. Fratelli d’Italia annusa l’aria, sperando di non restare schiacciata dai propri scandali. E il presidente Schifani è già tornato pragmatico: predica la moralità e negozia la maggioranza nello stesso respiro. In Sicilia i voti non muoiono: cambiano soltanto padrone.


