La mancata realizzazione del cimitero di Ciaculli, a Palermo, per 15 milioni di euro, e il mancato ampliamento della discarica di contrada Timpazzo, a Gela, per 11, sono due degli interventi che il governo Musumeci, a seguito della riprogrammazione dei fondi Fsc (Sviluppo e Coesione), ha “negato” alla Sicilia. Per entrambi non sono mancate le polemiche. Palermo, si sa bene, è invasa dalle bare insepolte, che in questi giorni il sindaco Orlando sta provando a ricollocare altrove, liberando così il deposito dei Rotoli (con immensa fatica); nella discarica gelese, invece, da qualche settimana confluiscono i rifiuti della Sicilia orientale, soprattutto da quando Sicula Trasporti, a Lentini, ha minacciato di chiudere il proprio impianto a causa del livello di saturazione ormai raggiunto. A guardarli bene, sarebbero stati due interventi cruciali: al pari – perché no – dell’ospedale di Lampedusa e dei 48 milioni che finiranno per finanziare 53 interventi in ambito infrastrutturale. Però, il cimitero di Ciaculli e la discarica di Timpazzo rimarranno nel libretto dei sogni. Sono stati esclusi dall’elenco degli interventi che il governo invierà nelle prossime ore a Roma per aver accesso a un’anticipazione di cassa di circa 774 milioni, a valere sulla programmazione europea 21-27.

Soldi promessi tempo fa dal ministro Mara Carfagna, utili a “compensare” le spese della pandemia. E a sbloccare progetti, in parte, già cantierabili. La scrematura si basa su questo requisito: cioè su quanto tempo servirà per trasformare le idee in azioni concrete. La commissione Bilancio dell’Ars, che sul tema era tenuta a formulare un parere, ha provato a stravolgere i piani di Musumeci & friends, prevedendo un’ottantina di modifiche rispetto al catalogo deliberato dalla giunta il primo luglio. Ma il presidente non l’ha presa bene, e ha chiesto di cassare tutte le modifiche. Lasciando aperto un varco: “Siamo certi – ha dichiarato al ‘Giornale di Sicilia’ l’assessore ai Trasporti, Marco Falcone – che otterremo da Roma almeno altri 150 milioni di premialità per il raggiungimento dei target di spesa dei precedenti programmi. E con quelli finanzieremo le opere che l’Ars ci ha chiesto di inserire”.

A questo punto del ragionamento occorre segnalare un paio di passaggi: il primo è il conflitto insanabile fra governo e parlamento, che non riescono a far collimare le priorità della Sicilia e spesso, troppo spesso, finiscono col far prevalere la logica dell’orticello (ancor più adesso, a un anno dalle elezioni); il secondo, invece, riguarda questa eterna “speranza” di poter strappare allo Stato risorse aggiuntive. Al Ministero dell’Economia, dal 2018, non si riesce a venire a capo del “conflitto di competenze” posto dall’assessore Armao, e relativo al riconoscimento di alcune attuazioni statutarie che permetterebbero all’Isola di avvantaggiarsi sotto il profilo fiscale (si parla di Iva, di Irpef, di imposte produttive, di insularità). Un groviglio infinito al quale sia Palermo che Roma guardano con diffidenza: se la Regione si fosse attenuta ai patti e alle regole – come nel caso dell’ultimo accordo con lo Stato per la dilazione in dieci anni dell’immenso disavanzo – Palazzo Chigi sarebbe più magnanimo e disposto a fare concessioni. Invece persiste quella “puzza” sotto il naso che rende complicato giungere a un compromesso, anche il più banale.

Tra le questioni che l’assessore all’Economia ha promesso di trattare al prossimo tavolo col ministro Daniele Franco e con la sua vice, Laura Castelli, c’è quella relativa al contributo annuale di finanza pubblica che la Sicilia, così come le altre regioni, è tenuta a versare allo Stato. Il precedente accordo – da un miliardo – è scaduto lo scorso luglio, e adesso Armao vorrebbe trattare al ribasso, in modo da liberare una parte delle risorse destinate all’uopo e già accantonate nell’ultimo Bilancio. Fra le tante questioni aperte con Roma c’è pure quella relativa all’accordo Stato-Regione, firmato il 14 gennaio scorso dall’ex premier Giuseppe Conte e da Nello Musumeci, allo scopo di garantire a palazzo d’Orleans un piano di rientro più soft dai due miliardi di deficit certificati nel 2019 dalla Corte dei Conti. Come? Spalmando il disavanzo su dieci anni, in cambio di un sacrificio da parte della Regione: la riqualificazione della spesa. Ergo: contenimento dei costi delle partecipate, chiusura delle liquidazioni degli enti in dismissione, riduzione dei centri di spesa e degli uffici, blocco del turnover nella pubblica amministrazione (con l’azzeramento, in pratica, delle risorse assunzionali), riforme varie. Ma quante di queste cose la Regione ha potuto o potrà garantire alla scadenza del 2021? Probabilmente, nessuna.

Anzi, nel frattempo ha chiesto al Ministro Renato Brunetta di ripensarci, chiedendo una modifica dell’Accordo e una deroga sulle assunzioni. Perché la burocrazia è vecchia e logora, e andrebbe resa più efficiente (e non solo snellita). Ma siamo sempre lì, al cane che si morde la coda. Cos’ha fatto la Regione per meritarsi un trattamento equo, o, addirittura, di favore? Come si possono pretendere altri 150 milioni di ‘premialità’ allo scopo di far felici i deputati? Non sarà facile, ma un tentativo andrà fatto. Musumeci è il primo a sapere che le chance di rielezione (sempre che la coalizione scelga di ricandidarlo) passano dalle risposte che i parlamentari sapranno dare sul territorio. E le uniche risposte le forniscono i ‘piccioli’, le opere, gli investimenti. Roba che la Regione – pur avendo in cassa quattro miliardi, come ha detto Armao prima della pausa estiva – non riesce a garantire con le proprie forze.

Il governo è stato a lungo inadempiente anche nei confronti delle imprese edili, che solo di recente hanno incassato i pagamenti per lavori pubblici e forniture. Ma, come segnala l’Ance (associazione nazionale costruttori edili), si sono accumulati sette mesi di ritardo “fra approvazione del bilancio 2021 e riaccertamento dei residui passivi, con gravi danni alle imprese creditrici già alle prese con la crisi economica provocata dalla pandemia. Ritardi nei pagamenti che le imprese hanno già subito negli ultimi tre anni, da quando, cioè, l’applicazione del decreto legislativo 118 del 2011 ha creato problemi nella formulazione dei bilanci pubblici e nel riaccertamento dei residui passivi”. Da qui una tenue speranza per il futuro: “Ance Sicilia auspica che la Regione riesca a depositare puntualmente i documenti contabili all’Ars entro metà ottobre, affinché il Parlamento regionale li approvi entro il prossimo 31 dicembre”. Vi immaginate un bilancio approvato in tempo utile? Nell’ultimo biennio l’iter della manovra finanziaria si è rivelato un dramma. Per ben due volte la Sicilia è finita in esercizio provvisorio, con la spesa vincolata alle poste degli anni precedenti. Mentre le leggi di Stabilità, costruite per lo pi su risorse extraregionali, sono rimaste per buona parte inattuate.

Prima di passare a quella fase – la programmazione 2022, con le elezioni sullo sfondo, sarà difficilissima da maneggiare: non ci si potrà accontentare di una manovra ‘lacrime e sangue’ – bisogna risolvere un’altra questione arretrata. Quella relativa all’ultimo rendiconto parificato, di fronte al quale la procura generale della Corte dei Conti ha chiesto un approfondimento dai magistrati contabili romani. Pende sulla testa della Sicilia un nuovo disavanzo da almeno 170 milioni (Armao l’ha quantificato in questi termini) a cui bisognerà porre rimedio prima di Natale, magari con una manovra d’assestamento. Fra le irregolarità da sanare ne rimangono alcune relative al Conto economico e allo Stato patrimoniale (entrambi bocciati dalla Corte in sede di parifica), oltre al mancato accantonamento da 315 nel Fondo Contenziosi. Da qualche parte questi soldi dovranno rientrare. O faremo, ancora una volta, finta che non sia successo niente? Musumeci, d’altronde, ha deciso sin dal primo giorno di delegare tutte le questioni economiche al suo assessore di fiducia. E questi sono i risultati. Altro che mance…