Se nelle Marche e in Calabria il centrosinistra ha fatto fatica, in Sicilia la montagna da scalare appare persino più impervia. Altrove i candidati si sono schiantati contro un centrodestra compatto e radicato; qui l’opposizione non ha neppure inserito la prima. A due anni dal voto (per le Politiche e per le Regionali) non esiste un progetto comune, non esiste un campo largo, e il Partito Democratico, che dovrebbe fare da traino, si trascina come un partito “di separati in casa”.

Campo largo o accozzaglia? Il Pd, che nelle Marche ha preso il venti per cento e in Calabria appena il 13,5, insiste nel rivendicare la leadership del fronte progressista che nel 2027 dovrebbe tentare la doppia scalata: Palazzo Chigi e Palazzo d’Orleans. Ma i risultati delle ultime Regionali non hanno scalfito Giorgia Meloni né acceso campanelli d’allarme nel centrodestra. Anzi, hanno certificato che con queste opposizioni l’alternanza è diventata una velleità. Anche in Sicilia. Dove, sotto lo stesso simbolo, convivono due fazioni che non si sopportano.

Nel Pd siciliano ci sono due linee politiche: la riformista e la movimentista. Ci sono due gruppi parlamentari: quello degli inciuci e quello delle mance. E ci sono persino due “antimafie”: da un lato quella delle pagnotte, fatta di incarichi e affidamenti diretti, con personaggi come Maurizio Scaglione – editore de ilsicilia.it e accumulatore seriale di nomine pubbliche – invitati a presentare libri sull’antimafia nonostante le acrobazie nei palazzi; dall’altro un veterano come Antonello Cracolici, che da presidente della Commissione Antimafia dell’Ars ha annunciato l’audizione dei vertici dell’Asp di Palermo dopo l’ennesimo scandalo di corruzione e, nel frattempo, si interessa delle infiltrazioni nelle concessioni balneari. Due volti inconciliabili della stessa medaglia, che raccontano meglio di qualsiasi congresso la crisi democratica.

Il resto viene da sé: due segreterie di fatto, due mondi che si ignorano, un segretario regionale che diserta la Festa dell’Unità a Palermo (“Per impegni pregressi”) e una base demoralizzata. Mentre Schifani governa distribuendo incarichi e prebende, il Pd resta fermo. Nessuna reazione sulla nomina di Luigi Genovese all’Ast, mugugni appena percettibili sull’inchiesta che ha travolto Galvagno e Amata, zero opposizione sulle mance infilate in manovra. Un partito che, invece di incarnare l’alternativa, finisce per specchiarsi nella maggioranza.

I Cinque Stelle non stanno meglio. In Calabria hanno candidato Pasquale Tridico, padre del reddito di cittadinanza, senza smuovere l’elettorato. Sia nelle elezioni di domenica che, la settimana prima, nelle Marche, hanno alimentato l’astensionismo più che l’alternativa. In Sicilia la musica non cambia: nessun radicamento, poche idee, dichiarazioni di principio e nulla più. L’unica iniziativa concreta è la denuncia sui numeri della Cardiochirurgia pediatrica di Taormina, che avrebbe un peso medio (cioè una complessità degli interventi) superiore a quella del “Civico” di Palermo e pertanto avrebbe diritto a diventare centro hub. Il punto di riferimento regionale. Una battaglia isolata, che fotografa più la marginalità del movimento che la sua capacità di costruire un’alternativa.

Pietro Salvatori, su Huffington Post, lo ha sintetizzato bene: il campo largo non è altro che “è una sommatoria di liste e gente che si guarda in cagnesco, e non una coalizione”, “un’alchimia in cui il Pd prova a fare da baricentro tra Avs, 5 Stelle, Italia viva, +Europa e magari anche Azione, quando ci sta, e a mediare tra baruffe quotidiane e idee agli antipodi. Una sommatoria di offerte politiche e ambizioni personali che ha come unico scopo fare 1+1+1 sperando che si arrivi a tre, e che Meloni si fermi a due. Per fare cosa? Oltre al “mandarli a casa” finora nessuno ha saputo rispondere a questa domanda. E questo rende zoppa in partenza l’offerta agli elettori”. Una analisi che sembra cucita addosso alla Sicilia, dove i contiani – che rimandano continuamente il redde rationem sulla scelta delle alleanze (e Italia Viva?) e del candidato unitario – non si fidano dei dem e i dem non credono a un progetto comune.

Il guazzabuglio si completa con gli outsider. Cateno De Luca, che per mesi aveva flirtato con l’opposizione, si è sistemato nel centrodestra fino ad appoggiare Occhiuto in Calabria (anche se la lista Sud chiama Nord ha raccolto un misero 0,2%, pari a 1.527 voti di preferenza). Ismaele La Vardera lampeggia a intermittenza: una fiammata sulla sanità, una sulle infiltrazioni nella società Italo-Belga a Mondello (in compartecipazione con Giletti), poi di nuovo silenzio. Troppo poco per costruire un fronte credibile.

Eppure le occasioni non mancherebbero. La rimodulazione della rete ospedaliera ha fatto infuriare sindaci di ogni colore (e persino i patrioti di Fratelli d’Italia, che remano contro); le inchieste giudiziarie hanno scosso vertici istituzionali; le nomine pilotate e le “mance” in manovra sono il segno di un potere che si alimenta di clientele. Munizioni che altrove sarebbero servite a costruire un’opposizione agguerrita. Qui no. Finiscono nel vuoto.

A fotografare la disfatta è lo stesso Cracolici, in un’intervista a Live Sicilia: “Il Pd siciliano è su una china rovinosa, un partito di separati in casa per le vicende che sappiamo. Questo, purtroppo, pregiudica la possibilità di essere efficaci, proprio mentre vengono al pettine i nodi di chi governa la Sicilia e della maggioranza. Il quadro politico è in fibrillazioni e noi rischiamo l’irrilevanza”. Il dirigente dem non fa sconti neppure alla segretaria Elly Schlein, che qualche mese addietro aveva snobbato la sua proposta di candidatura: “C’è una grande disattenzione sulla Sicilia, come se si desse per persa e non ci fosse voglia di giocare la partita”. E lancia l’ultimo avvertimento: “Se non si fa niente, la situazione si incancrenirà. In ognuna delle parti in causa ci sono persone responsabili, col senso del limite. Però, non basta più”.

Il paradosso è che, proprio nell’Isola, un’opposizione forte avrebbe più di uno spiraglio. Il centrodestra è robusto ma fragile, diviso da appetiti e rivalità. Eppure nessuno, a sinistra, è pronto ad approfittarne. Il risultato è un campo largo che resta un’etichetta per i talk show, ma che nei territori non esiste. Non più.