A poco meno di due anni dalla scadenza elettorale, le corde di Cateno De Luca sono tornate a vibrare. Qualche giorno fa, all’Ars, il battesimo della nuova creatura che dovrebbe trainarlo fino all’appuntamento con le urne (“Ti Amo Sicilia”). Un evento al quale fanno da cornice due elementi difficilmente compatibili: da un lato – considerate le critiche all’assessore Dagnino e la proposta di azzerare la giunta – il ritorno all’opposizione; dall’altro la mano tesa agli “orfani” di Cuffaro, che guardano con attenzione – per non dire che sono stuzzicati dall’idea – alla creazione di un intergruppo parlamentare. Sarebbe, per loro, un’occasione per riavere una dimora dopo la revoca dei due appestati (Messina e Albano) dalla giunta. Eppure la Dc continua a fiancheggiare il governo, a sostenerlo al di là ogni ragionevole dubbio, mentre De Luca, scampato il pericolo di entrarci, è tornato ai fasti di un tempo.
Anche se la strategia rimane confusa, frammentaria, abbozzata. Tutto parte da un presunto “governo di liberazione”, una specie di governo ombra che come tale avrà i suoi assessori (fantasmi pure loro). Grazie al quale Cateno vorrebbe procedere nell’opera di risanamento di una Sicilia messa in ginocchio da inchieste, scandali e corruzione. Potrà farlo assieme alla Dc, che Schifani ha cacciato dal paradiso per le pratiche clientelari che hanno condotto il suo leader ai domiciliari? L’intergruppo non ha alcuna preclusione e “intende rappresentare uno strumento di lavoro trasversale capace di superare le appartenenze di schieramento e di riportare al centro il ruolo del Parlamento regionale, oggi fortemente ridimensionato da procedure che ne mortificano le prerogative e da un esecutivo incapace di esprimere una linea politica chiara e stabile”.
Il patto con la Dc è una delle exit strategy con cui l’ex candidato alla presidenza della Regione – prima feroce avversario, poi docile stampella del governo – ha l’esigenza di riguadagnarsi il centro della scena. All’Ars gli sono rimaste poche armi e spuntate (tre deputati dopo la diaspora). Sui giornali lamenta di avere scarsa considerazione. E così ecco la contromossa: il caos. “Il presidente Schifani deve prendere atto che l’attuale assetto di governo non regge più. L’unica strada è azzerare la giunta e presentarsi in Parlamento con un fatto politico nuovo”. Cioè? “L’attuale maggioranza è composta da 44 deputati e la giunta da 12 assessori. Il criterio è elementare: un assessorato ogni quattro deputati. In questo modo ogni forza politica viene responsabilizzata e, soprattutto, tutti i capi tribù che hanno alimentato queste faide vengono accontentati, togliendo loro ogni alibi e riportando la discussione sul terreno delle responsabilità”.
Fino a qualche giorno fa De Luca aveva (ri)teso una mano anche agli ex colleghi dell’opposizione, votando a favore della mozione di sfiducia contro Schifani. Ed esternando il proprio fastidio per il mancato invito al raduno di San Martino delle Scale, dove Pd e M5s avevano partorito l’ideona della mozione. Insomma, la porta resta aperta anche per il centrosinistra, sebbene quella più appetibile rimanga socchiusa al centro. Mentre con la destra non corre buon sangue: è di qualche giorno fa la lite con i deputati di Fratelli d’Italia Galluzzo e Assenza per una questione localistica (il Parco Naxos-Taormina), poi con l’assessore Aricò sul Ponte e infine, sempre con Galluzzo, per alcune vicende legate alla sanità; Forza Italia, invece, imputa a Schifani di avergli concesso troppo spazio durante la scrittura della Finanziaria e di aver portato a casa un pacchetto di misure (le cosiddette norme ordinamentali) che adesso l’assessore all’Economia, Dagnino, vorrebbe stralciare dal testo per consentire alla coalizione di sopravvivere e alla manovra di andare avanti.
Ed eccola l’ultima versione di Scateno: “Un assessore al Bilancio che dà l’ok in Commissione Bilancio a una legge di stabilità da oltre 130 articoli e poi assiste, senza colpo ferire, alla sua falcidia per l’ennesima volta, fino a ridurla quasi della metà, dovrebbe porsi una domanda semplice: qual è il suo ruolo? Un assessore al Bilancio che obbliga il presidente della Regione a smentire sé stesso in continuazione, io l’avrei già mandato a casa. Altrimenti me ne sarei andato io”.
Con questi chiari di luna rimanere nel centrodestra a trazione Schifani diventa un compromesso difficilmente spiegabile. Ma anche andarsene altrove, dopo aver minato anche il campo largo – come testimoniano l’addio di La Vardera a Sud chiama Nord e i costanti rimbrotti di Pd e Cinque Stelle – non sarà un’operazione semplice. Gli altri esodati dell’aula, in effetti, sono i democristiani. Hanno perso Cuffaro, hanno perso i due assessori, ma rimangono fedeli alla linea. Le tre caselle del sottogoverno hanno permesso di prendere tempo, ma dopo il varo della manovra saranno liberi di andare dove vogliono. Anche fra le braccia di Cateno, che già sforna assist. “I due assessori rimossi non avevano alcuna ombra giudiziaria, a differenza di altri esponenti di altre forze politiche. Quegli assessorati vanno ripristinati senza ambiguità”, ha detto De Luca.
Lo stesso De Luca che qualche anno fa parlava del segretario della Dc, oggi ex, in questi termini: “Tu sei lo stupratore della Sicilia. A me la mafia fa schifo, a te no. Una differenza abissale”. Sarà che la voglia di buona amministrazione è talmente tanta da non avere abbastanza argini per contenerla, ma che ne sarà della memoria storica, della coerenza, del patto di fiducia con 500 mila siciliani che l’avevano votato per stare dall’altra parte della barricata?


