Bisognerebbe ripristinare il corteo del Primo maggio e abolire quella tamarrata incivile del Concertone. Il corteo era organizzato non da discografici o altri energumeni del mondo del commercio musicale, politicamente e civilmente en travesti, ma da onesti (più o meno) funzionari di partito e da dirigenti del sindacato, da segretari di sezione e attivisti Arci, e altri generosi compagni. Tutta o quasi tutta brava gente che credeva in quel che faceva (più o meno) e faceva quel che credeva (più o meno). La dimostrazzzzione non dipendeva dalle riprese televisive e da altri
videazzi & schiamazzi, erano le telecamere che dipendevano dal corteo. Non c’erano gli esibizionismi personali e di band, i famosi insopportabili monologhi, sempre a sfondo umanitario, sempre contro la guerra il razzismo e il fascismo e il sessismo in vocalità sanremese, sempre incuranti del giusto e dell’ingiusto ma moralmente blindati da parole inutili e roboanti come tatuaggi mal fatti, sempre sensibili alle oscene vibrazioni dell’attualità.

C’erano le solite canzoni, gli altoparlanti, i furgoni, i manifesti, il formidabile gracchiante noiosissimo Inno dei lavoratori che intonava il riscatto in nome dei figli (… dei tuoi figli opra sarà… o vivremo del lavoro … o lottando si morrààààà…), c’erano la gioia carnevalesca della sfilata, i bambini, i palloncini, la folla era accuratamente distanziata dal servizio d’ordine, il passo lento e cadenzato, un tripudio di bandiere e di sbadati o attenti slogan, il senso divino del fiume di folla in cammino come Aretusa in fuga nelle metamorfosi di Ovidio, la prospettiva della magnata fuori porta o in trattoria, la festa della convivialità senza attufamento, strusciamento e a quanto pare anche abuso. Palestina libera dal palco, graziosamente intonata sulle care note di una canzone amata dagli israeliani, e toccatina libera sotto il palco. Continua su ilfoglio.it