Se gli ultimi sondaggi ‘clandestini’ danno Cateno De Luca a un passo dalla rimonta, un motivo ci sarà: l’ex sindaco di Messina – piacciano o meno i modi – ha scompaginato l’equilibrio tra destra e sinistra, collocandosi nell’unico spazio che tutti i rivali di Schifani, compresa la Chinnici, hanno ignorato: quello dell’opposizione. Un’opposizione forte, feroce, a tutto campo. Contri tutti, sostanzialmente. Ma soprattutto contro chi ha governato la Sicilia negli ultimi cinque anni e che, vittima dell’impeachment dei partiti della maggioranza, non ha avuto l’appiglio per ricandidarsi.

De Luca sperava che a sfidarlo fosse Nello Musumeci. Gli avrebbe reso tutto più semplice. L’aggressione (verbale) al ‘cerchio magico’ è la specialità della casa; la denuncia delle malefatte – dalla sanità alla burocrazia, che rappresentano la carne viva dei problemi dell’Isola – è quanto di più consono ai metodi di Scateno. Il quale, però, ha dovuto rivedere i piani per ben due volte. Senza risentirne troppo. Primo: perché s’è ritrovato a imbastire una campagna elettorale su un doppio binario – Politiche e Regionali – senza poter rinunciare alla competizione nazionale, che avrebbe agevolato i partiti tradizionali (e travolto lui) grazie al voto d’opinione. Secondo: ha condotto una campagna lunghissima e, per certi versi, ignota. Il nome di Schifani è saltato fuori solo alla vigilia di Ferragosto (quello della Chinnici qualche settimana prima), ma De Luca ha avuto la pazienza di rimanere se stesso, senza intaccare di un’unghia la propria strategia. L’ex presidente del Senato è l’ultimo “puparo” della sua infinita collezione, che l’ex sindaco ha smontato e rimontato più volte, davanti alle piazze, fino alla nausea. “Sono tutti uguali questi della banda bassotti”, e Schifani con gli altri.

In questo riadattarsi ai protagonisti, non ha perso di vista l’obiettivo numero uno. Evidenziare che la destra è rimasta sostanzialmente uguale: coi i suoi vizi, i suoi peccati, le sue catene di comando. Il governo Musumeci ha rappresentato la panacea di una strategia populista che assimila molto dal metodo Grillo, ma che si evolve nel contatto frequente con la gente (al bar, in piazza e sui social), in un atteggiamento persino più aggressivo rispetto ai Cinque Stelle di dieci anni fa, ma con una preparazione amministrativa che rende tutto un pochino più credibile. De Luca non è soltanto una macchietta della politica come vorrebbe far credere Musumeci, che sull’argomento non fa altro che svicolare (“Occupiamoci di cose serie”). De Luca è un guitto rinnovato, che ha tratto giovamento dalle sue trovate – anche linguistiche – e a cui gli avversari hanno finito per dare credito. Ignorandolo.

D’altronde l’ha sempre detto: prima di diventare sindaco a Messina, nel 2018, era quarto nei sondaggi. Partiva indietro anche stavolta, poi la spaccatura fra Pd e 5 Stelle gli ha concesso un margine d’azione che nemmeno nelle aspettative più rosee. Anche gli avversari, a cominciare dalla rinunciataria Chinnici, gli hanno spalancato la strada. E che dire dell’apporto di Armao, di giorno candidato del terzo polo e di notte assessore del centrodestra? Un cadeau. Anche i grillini, provando a sfotterlo (“Sembra Crocetta”), hanno finito per fare il suo gioco. Così è rimasto Schifani. Adesso De Luca prova a sguazzare nella tempesta del centrodestra, sapendo di poter trovare un riferimento (quasi) certo nei delusi dell’uno e dell’altro fronte. Lo chiama il “partito parallelo”, che formalmente non esiste. Giammai. Ma esiste una nutrita schiera di elettori, dentro Forza Italia e Fratelli d’Italia, che si guardano in cagnesco: gli uni per non aver ricevuto le necessarie garanzie da Schifani sulla discontinuità dell’azione amministrativa; gli altri perché non hanno mandato giù l’amaro calice della rinuncia a Musumeci, visto come un dio in terra per aver seminato cinque anni. Entrambe le fazioni vorrebbero dimostrare all’altra chi ce l’ha più grosso. Come? Provocando la sconfitta.

E De Luca è lì, in attesa. Continua a battere tasti che gli altri si sognano. Senza peli sulla lingua. L’ultima, celebre invettiva riguarda l’assessore Razza e il suo “zerbino politico” – è così che l’ha definito – Mario La Rocca. Cioè il super dirigente del dipartimento Pianificazione strategica dell’assessorato alla Salute, che avrebbe invitato funzionari e dipendenti a usufruire della ‘missione’ per partecipare al convegno sulla Sanità, al Catania Airport Hotel, finanziato dall’assessore in persona. “C’erano Musumeci e Schifani, quindi è campagna elettorale. E se si tratta di un convegno politico perché il direttore La Rocca ha mandato l’invito a funzionari e dirigenti della Sanità dicendogli di prepararsi la ‘missione’? Fate la campagna elettorale coi nostri soldi? Cessi. Ecco che la sanità è il bancomat della politica. Se La Rocca vuole querelarmi si metta in fila”. De Luca affronta temi che gli altri non conoscono, o accuratamente evitano. De Luca solletica la pancia dei siciliani, e in un modo o nell’altro sta convincendo gli indecisi a recarsi alle urne e votare per lui.

Può non piacere, ma è l’unico ad aver rotto gli schemi (gli argini, talvolta, come nel caso dell’attacco al giornalista Pipitone) e a essersi impadronito delle piazze. Ad aver ripudiato i partiti e ad aver fatto campagna acquisti con alcuni reduci del Pd, tacciati di “impresentabilità”. E’ il solo ad argomentare una verità propria, senza che nessuno abbia la forza o trovi il coraggio di smentirlo. Un partito parallelo? “Siamo seri”, è stata la replica di Schifani senza argomentare. “De Luca? Siamo seri”, era la replica più in voga di Musumeci, che col sindaco di Messina – persino quand’era in carica – aveva voluto tagliare tutti i ponti. Ora se lo ritrovano contro, per l’ultimo giorno e mezzo di campagna elettorale. Venerdì notte anche Cateno De Luca e il suo esercito di liberazione potranno staccare la spina dopo un anno infernale. Che – qualunque sia il risultato – rischia di influenzare non poco le dinamiche della politica e del prossimo parlamento siciliano (specie se Schifani, che resta il favorito, non avrà una maggioranza).