Non poteva finire peggio: lui assente, e la sua maggioranza battuta in aula. Col voto segreto. Su un emendamento proposto dal governo che metteva in palio 400 milioni ‘di cartone’ (cioè con la copertura finanziaria incerta, considerato che la cifra è oggetto di una trattativa non ancora definita con Roma). Quando accaduto mercoledì notte è lo specchio fedele dei cinque anni di Nello Musumeci, che ieri ha comunicato all’acerrimo rivale e presidente dell’Ars, Gianfranco Micciché, le proprie dimissioni da presidente della Regione. Che smacco.

E’ la fine di un quinquennio che prometteva tantissimo – riforme, “mai più esercizi provvisori”, addio carrozzoni – la cui unica eredità, invece, è la disillusione. Se chiedeste ai fedelissimi del presidente di riassumervi la stagione delle riforme, si fermeranno all’Urbanistica: una legge approvata, fra l’altro, con il contributo di tutti i partiti. Non saprebbero, e non potrebbero andare oltre. Né citare la burocrazia, il turismo, i consorzi di bonifica, i forestali, i rifiuti. Nada. Si è passati dall’illusione che questa terra “diventerà bellissima” alla certezza che bisognerà attendere. Ancora.

Musumeci ha bruciato cinque anni di semina rifugiandosi nel palazzo senza mai uscirne (in senso figurato, ovviamente: da mesi la sua agenda brulica di visite e inaugurazioni). Consegnandosi mani e piedi a pochi ‘eletti’. Anche qui si tratta volutamente di un eufemismo: il suo “cerchio magico”, che ha influito a tal punto da influenzarlo pesantemente (nell’azione e nel metodo), è composto da assessori senza voti. Non ne ha Armao, che l’ha spinto nel baratro dei conti, dove il presidente è affogato senza alcuna velleità; non ne ha Razza, il ‘delfino’ nominato assessore della Salute, strigliato e richiamato dopo il tonfo di un’inchiesta in attesa di giudizio; non ne ha Manlio Messina, il cavaliere del Suca, che ha gestito il Turismo con una tale spregiudicatezza da apparire avventato. Sono loro ad aver condizionato Musumeci, ad averlo allontanato dai partiti e dai loro segretari, risultando gli unici destinatari delle scelte e degli umori del presidente.

I rapporti logori col parlamento – un parlamento che, in virtù di una legge elettorale sballata, gli aveva garantito una maggioranza risicatissima – hanno stoppato il processo delle riforme. E acuito la tensione fra i due poteri, esecutivo e legislativo. E’ all’Ars che Musumeci ha dato sfoggio alla parte peggiore di sé: dalla minaccia di andare “tutti a casa” dopo aver tergiversato sulla soppressione dell’Esa (che in seguito sarà lui stesso ad ‘occupare’); alle accuse smodate nei confronti dei ‘franchi tiratori’ e del voto segreto, culminate nel processo sommario (“Sette scappati di casa vorrebbero intimidirmi”) al termine della votazione sui grandi elettori per il Quirinale. Più le accuse dirette, sfrontate e anche un po’ volgari nei confronti di Sammartino, con riferimento alle sue vicende processuali; la disputa personale contro Fava, per la mancata approvazione della legge sui rifiuti; le critiche a Micciché per non aver saputo garantire l’imparzialità dell’aula; le cadute di stile verso Crocetta – che in parlamento non c’è più entrato – per le sue abitudini sessuali.

Anche la questione morale, di cui Musumeci s’è sempre fatto scudo, gli si è ritorta contro. Non una parola di condanna sulla gestione familistica dell’Oasi di Troina da parte del suo movimento; non una di biasimo sulla conduzione clientelare dell’Ast e sui mancati controlli della Regione; non un cenno sulla sparizione dei venti milioni dell’Ente minerario, uno scandalo rientrato in extremis (ma che le determinazioni dell’Ars non cancella); non una presa di posizione – chiara, netta, limpida – sui “morti spalmati” e sull’inchiesta dei dati falsi Covid, che porterà alla sbarra Razza e l’ex direttrice del Dasoe (poi riammessa alla Regione). Il fascista perbene si è perso in un bicchier d’acqua. Ha abdicato al suo ruolo di presidente, diventando un semplice rappresentante di governo. Ha diffidato dal toccare “alcune palle” perché “pericolose”, ma non ha mai detto quali. Da onestà-ta-ta a omertà è un attimo.

Questo cammino, che secondo una vecchia promessa sfoderata in campagna elettorale, nel 2017, sarebbe dovuto durare cinque anni, in realtà durerà poco meno. Gli ultimi mesi, trascorsi a raccattare i favori del consenso fra Catania e Roma, a traccheggiare una volta con Dell’Utri e quella dopo con Meloni, non contano e non gli fanno onore. Anche la decisione di dimettersi sui social, lasciando col cerino in mano i deputati che lo attendevano questa mattina all’Ars, è uno spregio istituzionale, l’ennesimo. E’ il testamento di una stagione inutile. Di una raccolta arida. Di una delusione enorme. Partì Nello, arrivò Nullo.