Matteo Salvini ficca il naso nelle questioni siciliane allarmando Schifani, ma in Veneto deve guardarsi dalla rimonta di Luca Zaia, che – stando a un recente sondaggio di Youtrend – eserciterebbe una forza attrattiva anche verso l’elettorato del campo largo (e godrebbe della fiducia che il Capitano ha ormai disperso). La segreteria non sarà in ballo finché la base, o il congresso, non sceglierà Zaia. Una cosa è certa, però: è stato Pietrangelo Buttafuoco, in tempi non sospetti, a suggerire il nome del “Doge” per rilanciare la Regione e l’autonomia siciliana. Una proposta che Zaia aveva gentilmente declinato, pur ribadendo che è “immorale” che i siciliani vadano a curarsi nella sua terra.

La Lega, in questi giorni segnati da due passaggi cruciali per la legislatura (la mozione di sfiducia e la Legge di Stabilità), diventa croce e delizia del governatore, che sembra rimasto l’unico ad aspirare alla successione di se stesso. L’ultimo a dubitare del bis è proprio Matteo Salvini, che qualche tempo fa calò dall’alto la scelta di Annalisa Tardino alla guida dell’Autorità portuale di Palermo e oggi – almeno così dice – sarebbe disposto a cedere la paternità della scelta a FdI in Lombardia, se in cambio avesse il via libera per indicare un proprio uomo (ma sarebbe certamente una donna: Valeria Sudano) ai vertici di Palazzo d’Orleans. Nelle prossime settimane si capirà meglio se il vicepremier bluffa o meno. Nel frattempo, però, è chiaro che il destino della Sicilia si deciderà altrove e Marcello Caruso in questa battaglia conta come il due di coppe.

Schifani è assediato nel palazzo. Non solo dai privati convenzionati, che il governatore ha scelto di non incontrare (ritenendoli, forse, non meritevoli di tale onore); o dai sindaci dell’Agrigentino e del Trapanese, che reclamano l’acqua. Ma anche dai partiti che, uno dopo l’altro, fanno a gara per defilarsi. Ci ha provato più volte Raffaele Lombardo, al netto di una breve tregua che è già svanita; ci sta provando Fratelli d’Italia, che attende ancora una risposta sul futuro di Iacolino alla Pianificazione strategica, dopo aver terremotato la manovra-quater col voto segreto; adesso è il turno del Carroccio, che nei giorni scorsi ha già dato segnali di timida ribellione.

Al netto di Sammartino, considerato l’alleato più fedele, si sono palesati parecchi mugugni. Il segretario regionale Nino Germanà ha rivolto un’interrogazione ai ministri competenti per capire quali assessori (incompetenti?) abbiano autorizzato la realizzazione di un impianto di trattamento dei rifiuti a Mili, nel Messinese; l’onorevole Vincenzo Figuccia ha richiamato l’assessore Faraoni a un atteggiamento più inclusivo e rispettoso nei confronti della protesta dei privati convenzionati. Insomma, nel Carroccio monta una certa irrequietezza. E l’uscita di Salvini, strategica ma non casuale, sarebbe arrivata al termine di un confronto con Durigon (fautore dell’accordo – poi estinto – con Cuffaro) e con Anastasio Carrà, parlamentare nazionale e sindaco di Motta Sant’Anastasia. La Sicilia rimarrebbe una seconda scelta rispetto alla Lombardia, ma è una pedina da muovere per ottenere attenzione.

Dietro l’interessamento del segretario leghista e vicepremier, si celerebbe anche il piano-B: indurre FdI a esprimere un proprio candidato nell’Isola (un revival di cattivo gusto porta dritto a Musumeci) per avere mani libere sul Pirellone. Ma è comunque un indizio. Pessimo. Anche i patrioti, un tempo “protettori” di Re Renato, si guardano intorno. L’amicizia di La Russa, sancita a Ragalna qualche settimana fa, non basta a suggellare il bis di Schifani che – cronache alla mano – è reduce da tre anni particolarmente tempestosi (fra scandali e fallimenti, e non ultima la mozione di sfiducia). Anche il commissario Sbardella, di recente, ha rinviato qualsiasi ragionamento sul nome del futuro candidato (“Non è all’ordine del giorno”), preferendo indirizzare l’attenzione sulla Finanziaria che si appresta a varcare le porte di Sala d’Ercole.

Schifani è nella morsa dei due partiti, e nessuno è rimasto a difenderlo. Nemmeno Antonio Tajani, il segretario nazionale di Forza Italia, il suo segretario, che tra un balletto e l’altro non ha ancora trovato il coraggio di alzare la voce per difendere le posizioni di Forza Italia e del suo governatore di punta (sic!). Forse perché neppure il gruppo dei berluscones all’Ars, umiliato da un’occupazione personalistica, quasi militare, delle istituzioni, riesce a vedere di buon occhio un secondo mandato. Il senatore Gasparri, a differenza di Caruso, ha ammesso di ascoltare i buoni consigli, e non è detto che quello di Salvini non lo sia.

A Matteo, però, rimangono due argini da superare: da un lato Sammartino, la cui posizione – meglio il partito o Schifani? – non è stata mai chiarita (con la compagna candidata alla presidenza, però, la scelta sarebbe più facile); dall’altro Zaia, che “minaccia” la sua leadership e, con l’ultima affermazione alle Regionali venete (oltre 200 mila preferenze per il Consiglio), conferma il grande respiro dei sondaggi. Mancano due anni al voto, e tante cose devono ancora succedere. Ma il trappolone è già allestito. Sta a Schifani non caderci dentro.