La nuttata e la figlia fimmina”. La frase è così becera, che ci si vergogna a pronunciarla e tuttavia rende bene il concetto.

Per diversi giorni carte e fiches sono rimaste sul tavolo, il gioco dell’incastro per la composizione del governo che non è più regolato dal “manuale Cencelli”, il prezioso vademecum che ci consentiva negli anni della prima e anche della seconda Repubblica di spartire il potere, scienza difficile e comunque essenziale, quel gioco è stato sospeso e il “manuale” sostituito dagli algoritmi.

Non mi chiedete cosa siano. Avevo difficoltà ad utilizzare lo studio di Cencelli e anche per questo ho gestito poco potere quando ero tra quelli che formavano la “casta”, ci fosse stato l’algoritmo avrei dovuto cambiare mestiere, senza, peraltro, arrecare alcun danno alla vita pubblica.

Fuor di metafora, si attendeva la composizione del governo nazionale per definire gli equilibri di quello regionale. Evidentemente, se un gruppo otteneva posti per i suoi a Roma, se il protagonista del circo, quello che più di altri ha attivato la giostra dell’autoscontro, quello che ha ingarbugliato il gioco e ne è rimasto fuori, se Miccichè avesse avuto un ruolo a Roma, se alcuni altri, che parevano in pista, fossero entrati al governo, le scelte per la giunta siciliana sarebbero state di conseguenza influenzate.

Alla faccia dell’autonomia, si dirà, e perfino dei problemi reali di questa terra.

Ma se i partiti della maggioranza, trascurando quelli dell’opposizione, che trascurabili risultano, si chiamano “Forza Italia”, una struttura di proprietà privata, “Noi per Salvini”, rumoroso e sconclusionato detentore assoluto del marchio o “Fratelli d’Italia”, guidato con mano ferma da una “sorella” che con la democrazia – quella interna al suo partito, s’intende -, non ha molta dimestichezza, se quello il cui capo voleva che la Sicilia diventasse bellissima – senza superlativi lo rimane comunque -, si è sciolto in un altro non lasciando rimpianti né memoria da custodire, con lui al governo per la cura e il controllo del mare, ruolo indefinito, che tuttavia – vanità intellettualistica – può conferirgli l’appellativo probabilmente gradito di “talassocrate”, come si disse di Minosse, se tutto questo caratterizza le nostre forze politiche, si capisce che dalle vicende romane, dalle indicazioni dei leader nazionali dipendono in larga misura le loro scelte.

Dalla lunga nuttata di attesa è venuto poco o nulla. È venuta semmai la prova della irrilevanza della destra isolana, i cui protagonisti sono stati riportati nel recinto loro proprio.

Tutti insieme hanno ottenuto un ministro senza portafoglio e una sottosegretaria senza borsello ai rapporti con il Parlamento.

La destra siciliana può contare su una favorevole congiunzione astrale, l’allineamento politico tra Palermo e Roma che, se non l’affranca da un ruolo ancillare e senza peso, le dà tuttavia un certo smalto, l’aiuta a gonfiare il petto, le può far dire di conoscere i numeri di telefono di quelli che a Roma comandano.

Il presidente della Regione può andare nella capitale, dove peraltro ha svolto funzioni importanti e ha imparato a conoscere le vie dei ministeri e, “toc toc, sono di Forza Italia”, gli si apriranno le porte e se non otterrà nulla di concreto, la cortesia, la disponibilità all’ascolto, la comune militanza con l’interlocutore saranno, almeno per lui, un buon risultato.

Potrà dire comunque – notizia di queste ore -, che alla mensa della solidarietà di Agrigento mancano il pane e la pasta per i poveri e con Salvini potrà approfondire la geniale idea di dare il reddito di cittadinanza a fasi alterne, sei mesi sì e sei mesi no.

Se la proposta del capo della Lega passasse, “gli assistiti” dovrebbero imparare a mangiare sei mesi sì e sei mesi no o a giorni alterni. Quel provvedimento non ha mai entusiasmato, è parso come una sorta di metadone e comunque, in assenza di soluzioni alternative, al netto dei molti abusi, ha consentito a migliaia di siciliani e non solo di sopravvivere.

Si dovrà pure cercare una soluzione diversa che, insieme al sostegno, punti alla ricerca di lavoro, che pure bisognerà prima creare.

Si potrà abolire il reddito. Molto più difficile risulterà abolire la povertà, ché quando, con molta enfasi e incontenibile, fanciullesco entusiasmo, quelli del Movimento Cinque Stelle, affacciati al balcone, hanno proclamato al mondo di aver raggiunto quell’obiettivo, ci risero tutti e si pensò che il prossimo annunzio sarebbe stato quello della cancellazione della morte.

Si può abolire il reddito per sostituirlo con altri strumenti più efficaci. Ma quando, com’è successo nella recente campagna elettorale, la destra ha proclamato la volontà di cancellarlo, quelli che ne fruivano si sono sentiti direttamente minacciati e il partito di Conte, che quell’idea, quanto volete sballata e attuata male, l’aveva avuta e realizzata, ne è risultato rianimato.

Il problema della povertà rimane e rimangono i poveri che bussano alla politica la quale non presta orecchio al loro flebile richiamo. Mal per loro che sono poveri. Vorrebbero addirittura un lavoro, essere protagonisti dello sviluppo. Devono rassegnarsi a rimanere ignorati o assistiti. Basta sedarli e placare la possibile protesta del sud con le mance.

Fatto il governo a Roma, conquistato il sottosegretariato ai rapporti con il Parlamento per l’onorevole Siracusano – con tutto il rispetto per la parlamentare, questo è stato il risultato della lunga nuttata -, ci si può rivedere attorno al tavolo, riprendere le carte, tornare a mischiarle per comporre la giunta.

Se nel frattempo qualcuno ha un’idea utile per questa terra, la tiri fuori, può infiorare lo sforzo per appattare le richieste dei partiti della maggioranza.