Il Coronavirus ha cambiato i piani della Fondazione Falcone: nella ventottesima ricorrenza della strage di Capaci, domani, non ci sarà alcuna nave della legalità, né il rito dell’aula bunker, all’Ucciardone; tanto meno le sfilate in giro per Palermo o sotto l’albero di via Notarbartolo. Tutto si riduce a un momento di silenzio, alla deposizione di una corona di fiori alla caserma Lungaro e ad alcuni appuntamenti televisivi cui la Rai tiene molto. Un modo che non dispiace affatto a Claudio Fava, presidente della commissione Antimafia all’Ars, che l’anno scorso si sfilò dalle celebrazioni: “Credo che questa congiuntura – spiega il deputato dei Cento Passi – ci abbia dato l’opportunità per un ricordo utile, che renda davvero onore alla memoria di chi non c’è più. Penso alla proposta e alla sollecitazione arrivata da un gruppo di imprese sociali e di associazioni e che noi, come commissione, abbiamo subito rilanciato: cioè, fare in modo che si ricordi il 23 maggio non soltanto come il giorno della morte di Giovanni Falcone, della moglie e degli agenti della scorta, ma anche come il giorno in cui la Regione siciliana è riuscita a definire tutte le pratiche di cassa integrazione in deroga. Tra le due cose c’è una simmetria profonda”.

Qual è la simmetria?

“Noi onoriamo la memoria dei nostri caduti e diamo un contributo concreto alla lotta alla mafia, se sottraiamo a Cosa Nostra le occasioni di nuovo reclutamento e di egemonia finanziaria. Mettere in condizione aziende, imprese, lavoratori e famiglie di poter ottenere ciò che è stato loro garantito, senza ricorrere a forme traverse di sostegno al reddito, mi sembra un modo utile. Oggi procuratori e questori parlano dell’aumento esponenziale del livello di usura, del ritorno in campo delle organizzazioni criminali, che rilevano le attività commerciali attraverso uno strangolamento economico. Vicende che abbiamo già conosciuto alla fine del decennio scorso come conseguenza della crisi finanziaria. Mi sembra bella, utile e concreta l’idea di ricordare Giovanni Falcone e, poco dopo, Paolo Borsellino, non solo sottolineando l’urgenza che queste misure possano essere realmente disponibili, ma facendo in modo che vengano utilizzate”.

L’usura è l’unico reato ad essere cresciuto durante la pandemia. Anche il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, ha evidenziato come le mafie utilizzino il Covid per organizzare nuovo reclutamento. Secondo lei lo Stato ha fatto abbastanza, a livello economico, per impedirlo?

“Le misure economiche si rivolgono realmente a tutti. Aver superato il vincolo europeo sulla parità di bilancio ha permesso di prevedere una stagione di spesa più libera. Restano due questioni da risolvere: la prima è l’effettiva utilizzazione di queste risorse, cioè la rapidità e l’efficacia con cui giungono a destinazione. Per un’azienda o una famiglia, doversi mettere in coda per mesi e mesi è cosa ben diversa dal ricorso alla liquidità che un usuraio, magari per conto di una famiglia mafiosa, riesce a garantire in pochi minuti. Vede, sulla cassa integrazione in deroga ci si muove esattamente in direzione opposta: siamo partiti dagli annunci dell’assessore e del suo dirigente, che si sono presentati in commissione lavoro dicendo che in ventiquattr’ore sarebbero state avviate le pratiche, e dopo un mese eravamo a una percentuale da prefisso telefonico perché era saltata la piattaforma o non c’era compatibilità tra il sistema Inps e il modo in cui si raccoglievano i dati delle aziende”.

Qual è la seconda questione?

“Evitare l’anarchia regolamentare dei processi di spesa. E’ chiaro che se conserviamo un sistema di vincoli e rigidità, soprattutto in chiave europea, i fondi rischiano di arrivare a babbo morto. Però se immaginiamo dei meccanismi che, all’opposto, non prevedono nessun processo di evidenza pubblica, rischiamo quello che è accaduto sui Nebrodi: cioè che una dozzina di famiglie di pecorai arricchiti, collegati alle organizzazioni criminali, da soli fanno incetta di fondi comunitari, utilizzando meccanismi di approvvigionamento finanziario ed economico che sfugge a ogni controllo. Dobbiamo fare in modo che la semplificazione delle regole non diventi sinonimo di assoluta impunità”.

La data del 23 maggio è utile per fare un bilancio sul mondo dell’antimafia. Lei, a causa del suo lavoro in commissione, si è scontrato con Antoci e con Borrometi. Di recente anche il magistrato Di Matteo e il ministro Bonafede si sono resi protagonisti di un siparietto in tv. Nell’ultimo anno è cambiata la sua percezione, ma anche quella generale, rispetto a questo tema?

“Credo sia sempre più chiaro che esiste un’antimafia da copertina, quadricromia, patinata, e sostanzialmente inutile, molto autoreferenziale, destinata soltanto a rimirarsi nello specchio. E poi c’è un’antimafia assai concreta. In questi giorni stiamo svolgendo un’inchiesta sui beni confiscati, che racconta come la riemersione verso la legalità di questi beni, siano esse aziende o immobili, sia una grande sfida non solo di legalità ma anche di convenienza. Una sfida sulla quale sono impegnati soggetti sociali, con limpidezza ed esperienza, ma soprattutto con concretezza d’azione. Sembra che comincia ad essere un po’ più chiara la differenza abissale che esiste tra i frequentatori delle copertine e dei salottini antimafiosi e chi invece, lontano dalle luci dei talk show e dalle interviste genuflesse, racconta un’antimafia del fare, del recuperare, del costruire”.

Anche il giornalismo ha un proprio ruolo in queste dinamiche?

“Certo, anche l’informazione. E’ sempre più chiaro che i giornalisti che si definiscono antimafiosi producono un’orticaria naturale. Sono quelle autoreferenzialità che fanno pensare che dietro ci sia il nulla. Chi non si definisce e lavora, e sono in tanti, sta dando alla Sicilia l’occasione di una lettura in profondità dei fenomeni sociali, clientelari, mafiosi. Credo che da questa vicenda abbia tratto giovamento una consapevolezza diversa del modo in cui si fa il giornalista. Un giornalista non sorride al fotografo, ma scatta fotografie per offrire un racconto ai propri lettori”.

Ieri un altro paladino della legalità, l’ex manager dell’Asp di Palermo Antonio Candela, è finito ai domiciliari con l’accusa di corruzione. La sanità siciliana vive un momento tragico e Micciché le ha chiesto di avviare un’inchiesta parlamentare. Qual è il suo giudizio sulla questione?

“Al di là delle contestazioni specifiche, l’inchiesta della Procura di Palermo e della Guardia di Finanza conferma che la sanità in Sicilia resta un tragico bancomat al servizio della politica, e viceversa. Per scambiarsi poltrone, carriere, denari ed appalti. È triste dover commemorare Giovanni Falcone senza che i governi che si sono succeduti in questi 28 anni abbiamo saputo mettere in campo, oltre alle frasi di circostanza, strumenti idonei ad evitare che la corruzione resti il naturale terreno di incontro tra appalti e politica”.

Che opinione s’è fatto della disputa televisiva fra Bonafede e Di Matteo?

“Mi sembra che Bonafede, nonostante la sua passione e determinazione, abbia peccato di gravi ingenuità e di forte inadeguatezza rispetto alle responsabilità che una funzione come la sua pretendono. La gestione delle scarcerazioni con il Dap che si muove da repubblica indipendente, senza che nulla sappiano il Ministero e la direzione nazionale antimafia, ci racconta uno scollamento istituzionale di cui la responsabilità principale è nella capacità di gestione e di governo che non ha avuto il ministro. Dall’altra parte sono rimasto stupito e molto colpito negativamente da questo ricordo a orologeria del procuratore Di Matteo che dopo due anni, in diretta televisiva, svela il contrasto che ci fu con il Ministro della Giustizia. Queste cose vengono affrontate, attraversate e risolte nel momento in cui si determinano. Intervenire dopo due anni, in diretta tv, per lamentarsi del trattamento subito, credo sia un comportamento che confligge un po’ col rigore, il riserbo e la prudenza che una figura istituzionale del rango di Di Matteo dovrebbe conservare”.

Fosse stato un senatore, avrebbe votato la mozione di sfiducia a Bonafede?

“La mozione di sfiducia è molto politicizzata. Il gioco che si è costruito aveva poco a che fare con le responsabilità di Bonafede. I renziani che propongono un armistizio in cambio di un posto da sottosegretario non è che nobiliti la discussione. Fuori dal Senato, secondo me Bonafede ha rivelato limiti profondi nella capacità di gestione, di governo, di controllo e consapevolezza di quello che stava accadendo. Tutto questo nella mozione di sfiducia c’entrava poco”.

L’ha amareggiata di più la nomina di Alberto Samonà ai Beni culturali o la difesa a oltranza di Musumeci e le sue frasi poco piacevoli su chi la pensa diversamente?

“M’ha divertito il modo in cui si prendono sul serio questi due personaggi. Quello di Samonà, che saluta il camerata Delle Chiaie e poi cancella il post, è un comportamento da ginnasiale, non da adulto, tanto meno da assessore ai Beni culturali. C’è nel suo linguaggio qualcosa che non ha a che fare con la destra, ma con la parodia della politica. Io sono buon amico di molta gente che ha il cuore a destra, ma una cosa è un confronto civile su funzioni, principi, contenuti della politica. Un’altra è banalizzare la discussione, dicendo che non ci sono più destra e sinistra, fascismo e antifascismo, viva “Giovinezza” e abbasso “Bella Ciao”. Sono argomenti legittimi al bar dello sport. Ma che diventino l’orgogliosa identità politica dell’assessore alla Cultura mi sembra un’idea abbastanza malinconica. E poi c’è il capitolo Musumeci…”.

Prego.

“Anche l’idea che ha Musumeci della democrazia mi sembra una cosa più ridicola che tragica. Il fatto che chi non la pensi come lui debba stare zitto e in casa, e che la gente perbene è soltanto quella che lo applaude, cose fosse un direttore didattico appena entrato in classe, mi sembra una parodia della politica e della democrazia. Capisco che questa stagione del Covid abbia esaltato le sue antiche pulsioni, con la richiesta dell’articolo 31 eccetera… Però una cosa è metterti il cappello in testa e viaggiare su una palla da cannone, come Tartarin di Tarascona, un’altra fare il presidente e ascoltare in umile e rispettoso silenzio tutte le voci contrarie”.

Il nuovo segretario del Pd, Anthony Barbagallo, vorrebbe costruire un “campo largo” e coinvolgere anche lei nel nuovo progetto di sinistra. E’ possibile una sinistra diversa da quella degli ultimi anni e, magari, anche vincente?

“Riconosco a Barbagallo un’attenzione politica e morale positiva, forte, importante per la vicenda del suo partito, quindi apprezzo le sue parole. E soprattutto mi fa piacere che non si pensi alla somma di pezzi di schieramenti, di tribù, ma che si sta cominciando a ragionare assieme ad altri – alcuni Cinque Stelle, o il gruppo di Nicola D’Agostino – per costruire uno schieramento ampio, largo, che abbia una cultura politica, un’idea della democrazia e un bisogno di profonda discontinuità amministrativa e di governo. Su queste basi si può lavorare insieme”.