Avevo sempre desiderato andare a Buenos Aires, proprio come un adepto in pellegrinaggio ai luoghi sacri della sua fede. Sognavo di percorrere le vie del barrio di Palermo dove Jorge Luis è nato nel 1899, e dove è diventato Borges. Era lì, nella sua Palermo, che me lo figuravo sempre: nella casa paterna di calle Tucumàn, mentre sfoglia un volume della Enciclopedia Britannica, o in quella della sua amata, e defunta, Elena Beatriz Viterbo, nel cui sottoscala vide l’Aleph o immerso in facezie filosofiche con Macedonio Fernandez, il suo mentore bohemien e anarchico, o nelle divertite combutte con Adolfito Bioy Casares, il suo complice letterario, o durante l’abituale visita alla libreria anglo-tedesca, con in mano un arcano di Swedenborg o un inedito di De Quincey, o a passeggio per la calle Florida con la madre, l’imperiosa, onnipresente e ultranovantenne Leonor Acevedo, o nel rincasare al tramonto, all’angolo di una strada, testimone di una rissa di compadritos.

Fantasticavo di ripercorrere l’intrico di calles e avenidas che i suoi passi quotidiani avevano dipanato anno dopo anno, sino a divenire per lui, nel suo lento scivolare verso le ombre, il perimetro della sua memoria sentimentale, e per me l’ambito realistico del suo universo poetico. Premeditavo persino d’appostarmi fuori dalla sua casa di calle Maipù, fintantoché non l’avessi visto uscire o rientrare, per un attimo, o per il tempo che mi avrebbe concesso la sua prevedibile lentezza. Immaginavo la scena: lui che a passo lento attraversa Maipù diretto verso casa, lo sguardo fisso che guarda senza vedere, il bastone che batte il selciato. Qualcuno, uno sconosciuto, lo aiuta ad attraversare la strada e lo accompagna fino alla porta. Lui che tasta la serratura mentre introduce la chiave, lentamente. La porta che si apre e lui che si congeda dallo sconosciuto con un sorriso riconoscente che gli illumina il volto, prima di scomparire nella penombra.

Ecco, io sarei stato quello sconosciuto, e lui salutandomi mi avrebbe sorriso, e sarebbe entrato nella mia biografia, e anch’io sarei scivolato furtivo dentro la sua, anche se solo nell’indice delle inezie evanescenti.

Per varie ragioni, una delle quali sospetto fosse la paura di oltraggiare il mio immaginario borgesiano nel confronto con le implacabili scenografie del reale, avevo rinviato di anno in anno il viaggio così lungamente e minuziosamente concepito. Avevo girato l’America Latina in lungo e largo, ma le circostanze e l’indecisione mi avevano sempre sviato dall’Argentina.

Ero appena tornato da un lungo viaggio in Bolivia, quando un pomeriggio di marzo ricevo una telefonata da un mio amico: “Domani sera vieni con me dal tuo Borges, cosi lo potrai conoscere di persona.” Aggiunse che alla conferenza erano ammessi soltanto pochi invitati e che lui aveva pensato a me in vece della moglie che si sarebbe annoiata.

Stentavo a credere che stesse accadendo davvero “a me, qui, precisamente ora”. Immaginando d’essere un elleno dell’ottavo secolo a.C., era come se d’un tratto mi avessero detto: “Prima che tramonti il sole vedrai con i tuoi occhi, e potrai toccare con le tue mani, il sommo Omero.” Come il rapsodo greco, l’argentino già durava nella leggenda, e come quello era cieco. Era un vate di ottantacinque anni che ancora trovava la forza e la voglia di varcare gli oceani per venire a ritirare un riconoscimento, per quanto prestigioso, a Palermo. E ciò aveva del fenomenale, tanto da farmi sentire autorizzato a ricamare intorno alla possibilità che un Fato benevolo, deciso a rimediare alla mia irresolutezza ad intraprendere quel viaggio, avesse organizzato le cose in modo tale che venisse lui, Borges, nella mia Palermo, perché io lo potessi vedere e toccare, prima che fosse troppo tardi, e magari, da perfetto e inesorabile sconosciuto, strappargli una parola, un sorriso cortese.

Sapevo che non avrei avuto che qualche attimo, come lo sconosciuto di Maipù, ma come quello volevo riportare a casa il ricordo di Borges che si congedava precisamente da me, come pegno tangibile del nostro incontro. Mi echeggiava un passo de Il fiore di Coleridge in cui Borges riporta una magnifica invenzione del poeta inglese: “Se un uomo attraversasse in sogno il Paradiso, e ricevesse una rosa come prova di esservi stato, e se destandosi si trovasse in mano quel fiore… allora?” Ecco, io sentivo, come plausibile variazione di quella fantasia, che il saluto di Borges sarebbe stato per me come quella rosa: l’avrei riportato dal sogno, e stretto in pugno al mio risveglio.

Andai alla conferenza come sballottato dentro un turbine di scene in cui variamente stringevo le mani del mito e gli rivolgevo la parola.

Con quali pretesti mi sarei rivelato? Pensai fosse inutile declinare le mie generalità, e altrettanto irrilevante fargli sapere quale immenso onore fosse fare la sua conoscenza. Sciocco, e persino indelicato, fargli i complimenti per la conferenza. Dichiarargli seccamente il mio amore, “io l’adoro Maestro”, sopra le righe e adolescenziale. Usare le sue stesse parole, e dirgli che per me anche lui, come i pochi altri della sua lista, “è meno un uomo che una vasta e complessa letteratura”, scontato e ruffiano. Serviva qualcosa di originale, di curioso, che interrompesse la sequenza delle banalità e stabilisse un contatto, un collegamento. Cercai tra le sue invenzioni un pretesto pertinente. D’un tratto, impertinenti, tornarono a frullarmi in testa due strane parole sulle quali avevo rimuginato tempo prima, due vocaboli astrusi che il Nostro aveva usato in due differenti racconti: nel primo, inseriti in una frase, frammento di un idioma immaginario; nel secondo, presi a sé, come titolo di un tomo della Biblioteca di Babele. Nel farci caso mi ero chiesto, non senza una certa civetteria filologica, se la ripetizione fosse voluta, oppure (ecco l’ipotesi intrigante) inconscia, frutto di un lapsus memoriae, di una disattenzione rimasta incorretta. Per essere curiose, di meglio non me ne venivano, così ci ricamai un po’ su.

Entrò nella sala al braccio dell’incessante compagna di quegli ultimi anni della sua vita, Maria Kodama, e si accomodò al centro del tavolo, tenendo il bastone ritto tra le gambe ed entrambe le mani poggiate sul pomo largo e nodoso. Teneva la testa sollevata, non portava occhiali, le palpebre spalancate, le orbite mute che inseguivano qualcosa nell’aria, un po’ qua un po’ là, come un volo di farfalle prigioniere. Sapevo che non vedeva tutto nero, ma una densa melassa giallastra, come una cortina dorata tra lui e l’oscurità. Non gli toglievo gli occhi di dosso un istante. Ad un certo punto temetti che fissarlo e scrutarlo a quel modo non fosse che una subdola rivalsa della mia frustrante inesistenza ai suoi occhi. Per un po’ vagheggiai sopra un’assonanza puerile: proprio come l’Ulisse omerico, tenevo d’occhio un gigante mitologico che non poteva vedermi, e per il quale ero, e sempre sarei stato, Nessuno. Tuttavia, osservandolo e ascoltandolo mentre affabulava di rose immarcescibili, di tigri dorate, di specchi abominevoli e rovine circolari, non potevo fare a meno di pensare a me come a quegli esseri invidiabili e quasi incredibili che magari una sera cenarono allo stesso tavolo di Oscar Wilde, o condivisero un giorno di cella con Cervantes, o una birra con Joyce.

“Quando lo lessi, per me finì la letteratura, e cominciò Borges!” Questa è forse l’esagerazione di un suo lettore stregato, ma rende l’idea dell’amore, e della felicità, che quell’uomo è stato capace di suscitare.

Eppure, era stato ed era ancora un autore esoterico, la cui marginalità, ma è meglio dire alterità, rispetto ai paradigmi culturali e politici dominanti, se da un lato ne fomentava il mito, dall’altro ne decretava l’ostracismo. Non era uno scrittore popolare, non era un intellettuale “impegnato”, e non era “di sinistra”: questo era sufficiente perché venisse messo all’indice, dal conformismo imperante, come un vecchio erudito, reazionario e autoreferenziale, incurante, se non ostile, alle grandi utopie contemporanee e alle sante cause che ingaggiavano il presente. E per ciò gli fu negato il Nobel. A proposito del quale, mi rodeva una domanda: perché, benedetto uomo, aveva deciso di dare ai suoi detrattori un buon argomento, accettando l’invito nel Cile del macellaio Pinochet per un giro di conferenze? Mi confortava un’unica illazione: che l’avesse fatto apposta. Forse non gli importava di essere politicamente corretto, preoccupazione questa di chi ha qualcosa da nascondere, lui che aveva scritto pagine definitive sulle dittature populiste e sul nazismo, e che proprio per il suo accanito antiperonismo era mal tollerato persino nella sua patria. Forse non gli importava nulla di ricevere quello che era diventato una specie di premio di consolazione terzomondista, per ottenere il quale bisognava essere antagonisti o perseguitati, meglio se di lingua periferica o esotica. O forse lo lusingava di più la compagnia degli esclusi: Proust, Kafka, Joyce, Chesterton, Musil, Conrad, James, Celine, J. Roth, Nabokov, Valery, Orwell, Yourcenar, Kundera, Cioran…

Borges era tutto questo, era la leggenda di un uomo cui il Fato, “con magnifica ironia”, aveva dato “insieme i volumi e la notte”, di un uomo che sembrava vivere in un altro tempo e spazio, indifferente alle prosaiche occorrenze della vita e alle urgenze di questo mondo, chiuso nella sua fortezza verbale (concluso nella sua detenida memoria di un mondo datato e immutabile, per lo più popolata di libri e rimembranze letterarie) a scrivere, in una lingua pura come un diamante, in versi, racconti e saggi di una perfezione e di una autosufficienza intollerabili, di fervori gaucheschi e inobliate milonghe, di labirinti e specchi, di biblioteche infinite, paradossi filosofici, mondi e idiomi fantastici, libri immaginari, animali mostruosi, meditazioni sul tempo e la storia. Un sogno deliberato e manovrato, questo era per Borges la letteratura: arte mistificatoria e combinatoria, ri-creazione retorica di universi eterotopici e anacronistici, ma resi plausibili e quasi realistici dall’abbagliante potenza di una esatta congiunzione di parole.

Terminata la conferenza, attesi il mio turno per la presentazione. Borges stava seduto su una bassa poltroncina a fiori rosa, appariva stanco, saturo. Maria Kodama, in piedi dietro di lui, gli teneva una mano sulla spalla, vigile e cortese. Venne il mio momento. Chinandomi sull’immortale, presi la sua mano tra le mie. Fulmineo mi percorse un brivido: realizzai estaticamente che, in quel preciso granello d’eternità, io e Borges eravamo insieme mano nella mano, e che questo fatto prodigioso era perfetto così, che ogni parola sarebbe stata di troppo e avrebbe rischiato di sfregiare la ineffabile pienezza di quell’istante. Vivido e realistico, mi tornò alla mente l’epilogo di Funes, o della Memoria: “…mi parve monumentale come il bronzo e antico come l’Egitto, anteriore alle profezie e alle piramidi. Pensai che ciascuna delle mie parole sarebbe durata nella sua implacabile memoria; mi gelò il timore di moltiplicare inutili gesti.” Fui per rinunciare, sentii per un istante che tacere, risparmiargli le mie quisquilie, era la cosa più borgesiana che potessi fare, da parte mia la più devota, e da parte sua la più gradita.

Per fortuna non cedetti a quell’eroica suggestione, non mi dimenticai dello sconosciuto di Maipù, e del fiore di Coleridge, e del sogno, e del pegno che ne avrei trattenuto. Dovevo strappare il sipario, notificarmi, parlargli per esistere ai suoi occhi, per il ricordo di lui che mi ascolta e mi risponde.

Così accostai la bocca al suo orecchio, e scandii:– “Maestro, il mio nome è Ulisse, vengo da Tlhön e vi porto il saluto del caro popolo di Uqbar: Axaxaxas mlö!”

Borges sollevò il capo, e mi fissò dritto in faccia. Mi sentii gelare, come attraversato non dallo sguardo orbo, ma da ciò che celava: dietro quelle quinte imperscrutabili stava prendendo corpo un’ipotesi d’uomo, l’incerta fisionomia della voce che aveva parlato. Borges mi stava immaginando, stava facendosi un’idea di me, e questo è più spaventevole, più irrimediabile, che l’essere soltanto fissati.

“Da parte mia – aggiunsi, cingendogli la spalla – solo grazie Maestro, grazie per l’infinita gioia e la meraviglia che le sue pagine hanno dispensato ai miei giorni.”

Delicatamente prese a battere il palmo della sua mano destra sul dorso della mia, tre, quattro volte, accompagnando il gesto amichevole con un lieve borbottio, come se stesse ruminando tra sé qualcosa. Dunque l’espressione si fece accogliente, si sarebbe detta supplichevole. Appoggiò la mano sul mio braccio, distese la bocca in un tenero sorriso, e scolpì nel mio cuore:

– Muchas gracias querido. Ulisse? Verdad? Vale… Gracias, amigo, por tu amable recuerdo. Entonces, Ulisse, existe también una seňora Penelope?

– No, Maestro.

– En tal caso Itaca puede esperar, no? Feliz viaje Ulisse, y agradeceme todos los hijos de Tlhön. Buena suerte, querido.

Lasciò scivolare la sua mano lungo il mio braccio fino a ricongiungerla con l’altra sul bastone, e ripiegando il capo si raggomitolò nella poltrona, ritirandosi nella sua penombra. Mi congedai in silenzio, indietreggiando, emozionato e grave, nello stato d’animo del catecumeno che ha appena ricevuto i sacramenti direttamente dalle mani del santo. Il sogno era diventato ricordo, ricordo di un sogno.

Borges si spense poco più di un anno dopo, e per suo espresso desiderio fu sepolto e riposa in eterno nella città di Ginevra (dove aveva vissuto e studiato da ragazzo). Non avevo alcun motivo, ormai, per affrettarmi a Buenos Aires.

Vi andai venticinque anni dopo la morte del suo più illustre cittadino di sempre. La città non gli somiglia affatto. Il barrio di Palermo, la Recoleta, Serrano, Florida, i luoghi sacri della toponomastica borgesiana, nella loro omologata e dozzinale modernità, non rimandano nulla di quel microcosmo nel quale romanticamente lo avevo immaginato. Solo patetici e sporadici indizi del suo passaggio: un breve e insignificante tratto di Calle Serrano intitolato a suo nome; al caffè Beila, seduti ad una tavolino, un Borges e un Bioy Casares di cartongesso, rugosi e lugubri, fingono una conversazione. Una sedia vuota tra i due ammette, o adesca, un terzo conviviale, per la foto ricordo; uno scatto sbiadito al caffè Tortoni, tra un busto di Pirandello e un ritratto di Gardel, lo coglie già vecchio insieme ad un gruppo di amici.

Quanto al resto, nulla, dimenticato. Non v’è traccia né memoria delle case dove è nato e vissuto. Non un’effige pubblica, una statua, un memoriale, non un tributo cittadino commensurato alla sua grandezza, nulla, eccetto un centro estetico senza pretese dove la scritta “Borges” sfavilla nell’insegna al neon del negozio. Quest’uomo sta a Buenos Aires non meno di quanto Dante, Joyce e Kafka stanno a Firenze, Dublino e Praga. Per contro, sulla facciata di un orrido grattacielo che sovrasta mezza città è riprodotto un gigantesco quanto nefando profilo di Evita Peron. Mah! Le perle ai porci? “Datele – scrisse nei suoi Vangeli Apocrifi –, quel che è importante e dare”.