È un romanzo sulla memoria il primo che Daniela Tornatore, giornalista, ha scritto e si è regalato per i suoi primi 50 anni. Un libro – anche – sull’importanza delle parole non dette o, meglio, di quelle parole che dovremmo dire, pure nel quotidiano, e invece no, continuiamo a non dar loro fiato in un perpetuo rinvio a domani, come se di domani ce ne fossero a milioni. Pagine, quelle de «L’ultimo ricordo» (edizioni LEIMA, da giovedì prossimo in libreria) sui ricordi, per l’appunto, il cui valore cresce quando sbiadiscono o si cancellano, specie per involontaria, meccanica dimenticanza.

Nasce proprio da una dimenticanza personale, il libro, da un improvviso mancato ritrovamento, da un senso di smarrimento. «Un oggetto, qualcosa che sapevo di aver custodito di sicuro in un certo posto – racconta la Tornatore – che avevo portato con me per città diverse, nel corso di vari traslochi, di casa in casa. Tutto ad un tratto lo cerco, come faccio periodicamente, e non lo trovo più. Sparito dal cassetto dov’era custodito, non localizzato nemmeno in altri. Nessuno può averlo rubato e io che non riesco a ricordare se l’ho magari conservato in un altro posto ma sono quasi certa di no. Ecco, questo senso di perdita che spiazza, disorienta mi ha fatto pensare “e se nella nostra memoria, a un certo momento, non ritrovassimo più niente?”. Vuota, come quel cassetto, senza quell’oggetto che ti lega al passato, senza una traccia che ti aiuti a scovarlo».

L’oggetto smarrito è solo un pretesto, un input, nulla di autobiografico, puntualizza la neo-narratrice. «Però quell’episodio mi ha fatto capire che, se avessi dovuto scrivere un libro, avrei dovuto scrivere proprio questo, e nessun altro». E dunque la storia è quella di un uomo e di una donna, in questi primi vent’anni del nuovo secolo, e della perdita di memoria. Come un buco nero. «Sì, credo che una lettura psicologica si possa dare al romanzo che d’altronde ha sfumature anche un po’ gialle, un po’ noir».

Che rapporto ha con la memoria Daniela Tornatore? «È sempre stato ottimo. Da bambina mi chiamavano Pico della Mirandola, ricordavo tutto puntigliosamente, date, luoghi, persone, occasioni. Certo adesso, con l’età, qualche piccolo vuoto c’è. Non nego che questa memoria di ferro mi abbia aiutato: moltissimo a scuola tanto da non passare le notti sui libri, ma anche professionalmente (Tornatore ha lavorato in tv, da Tgs a La7, all’ufficio stampa del Comune di Palermo, adesso cura la comunicazione per i Fondi europei della Regione, ndr), nella mia attività giornalistica mai preso grandi appunti e mai smentita». Però «con la memoria che ancora mi ritrovo, confesso che oggi preferirei dimenticarle certe cose».

Come è stato scrivere, in età consapevole, il primo romanzo? «Un’esperienza incredibile. Mi sarebbe piaciuto farlo a 16 o a 17 anni quando ho capito che raccontare era la cosa che più desideravo, che mi riusciva meglio. Un proposito sempre accantonato in un angolo anche perché ogni volta che lo tiri fuori ti metti lì e ti chiedi: ma come si scrive un romanzo? Sarà che le cose arrivano quando devono arrivare ma stavolta è stato diverso: quell’input era un diktat, ho buttato giù l’incipit e non mi sono più fermata fino alla fine facendo soltanto dopo un lavoro di rilettura, di rielaborazione, di aggiustamenti ma la prima versione è figlia di uno scrivere inarrestabile, fluviale».

Nuove idee per nuovi libri? «Mentirei se dicessi di sì o peccherei di presunzione. Intanto “L’ultimo ricordo” è stato partorito e voglio accompagnarlo “mano manuzza” nelle presentazioni in libreria, negli incontri col pubblico fino a che sarà lui a lasciarmi la mano e a camminare da solo».