Si avvicinano le elezioni, e puntuale rispunta l’Udc. Non per idee, ma per mestiere: occupare un pezzetto di scena, presidiare uno strapuntino istituzionale, far valere un simbolo che conta più come passepartout che come proposta. La cartolina del weekend romano lo dice meglio di qualsiasi analisi: Giorgia Meloni sceglie la festa nazionale dello scudo crociato per parlare della barbara uccisione dell’attivista americano Charlie Kirk, per un passaggio identitario durissimo (“chiedere conto alla sinistra di un giustificazionismo che rende insostenibile il clima”, invocando pene che non abbiano doppi standard “per chi spara a destra”) e per ribadire che la politica “può essere autorevole, credibile, fatta con dedizione e sacrificio”. Il palcoscenico è Udc, il messaggio è tutto suo. Il partito di Lorenzo Cesa – che da luglio ha ceduto formalmente il ruolo di segretario a De Poli – si limita a fare da quinta teatrale. È il suo talento più antico: esserci, senza pesare.
In Sicilia il copione è identico, solo più esplicito. Qui l’Udc non ha costruito un radicamento né una classe dirigente riconoscibile; ha però affinato l’arte dell’incastro. È successo alle ultime Regionali: Cesa è riuscito a infilare Serafina Marchetta, moglie del coordinatore regionale Decio Terrana, nel listino del presidente. La sua parabola è singolare: a settembre aveva raccolto appena 25 voti personali, ma il seggio blindato garantito dal listino l’ha catapultata all’Ars. Poco dopo, con la seconda tornata di votazioni per il Consiglio di presidenza, la Marchetta è stata premiata con 27 voti: due in più che alle urne. Risultato, è deputato segretario all’Ars, cioè membro dell’organo di autogoverno dell’Assemblea regionale.
I numeri dicono il resto: stipendio da deputato (6.600 euro lordi), diaria (4.500), indennità da membro del Consiglio di presidenza (1.160). Totale: 12.264 euro al mese, quasi 150 mila l’anno. Spalmati su una legislatura, 735 mila euro. Tradotto in termini elettorali: ogni singolo voto ricevuto dalla signora Marchetta vale 29.400 euro. Non è populismo, è matematica. Nel frattempo, il marito si lamentava dei troppi incarichi riservati alla Lega, ma alla fine la famiglia non ha potuto dirsi maltrattata: una poltrona pesante, qualche incarico di sottogoverno e la certezza che lo scudo crociato, seppur ridotto a miniatura, ha ancora il potere di moltiplicare stipendi.
Il tentativo di fondersi con la Lega per gonfiare i muscoli, annunciato a più riprese, è evaporato con la stessa rapidità con cui si era materializzato: utile a generare titoli, impotente a generare consenso. L’operazione “cavallo di Troia” immaginata da Salvini – usare l’Udc come veicolo per scardinare il Sud – non ha superato il vaglio dei suoi stessi colonnelli. E Minardo, che doveva rappresentare la testa d’ariete del nuovo asse Cesa-Salvini, ha cambiato casacca ed è finito in Forza Italia.
Per capire quanto poco significhi l’Udc nella dinamica nazionale – e quanto invece riesca a riposizionarsi in Sicilia per pura sopravvivenza – basta scorrere la cronaca recente. Nell’autunno 2022, le politiche ribadiscono la sua irrilevanza: nessuna centralità, nessun seggio significativo, percentuali risibili. In Sicilia, nel frattempo, i suoi esponenti si ricollocano altrove: chi in Forza Italia, chi nella Dc di Cuffaro, chi direttamente con la Lega (come l’assessore Mimmo Turano). Il partito evapora come contenitore, restano i simboli e le rendite di posizione. Nel 2024, a marzo, si parla di un accordo con la Dc di Cuffaro: ipotesi destinata a naufragare. A livello nazionale, Cesa e De Poli resistono grazie agli accordi paracadute del Rosatellum: due seggi blindati, zero discussione interna. Nel 2025, infine, Meloni rispolvera l’Udc come sfondo per un discorso identitario. Non per la forza del partito, ma per l’utilità della scenografia. Questa è la vera cronistoria dello scudo crociato: non crescere, ma galleggiare. Non esprimere, ma piazzarsi.
E tuttavia, sul fronte siciliano, resta un’ombra che chiede chiarezza. Da anni circola – nei corridoi della Regione, tra assessorati e partecipate – la figura di un faccendiere storicamente legato all’entourage di Cesa. Lo si intravede quando si parla di nomine, appalti, cabine di regia. Un’ombra che non ha mai trovato smentita definitiva. Domanda semplice: c’è, opera, influenza? Se sì, chi lo accredita? Se no, perché nessuno sente il bisogno di diradare i sospetti? La politica che “vuole essere credibile”, come ha detto Meloni dal palco Udc, comincia da qui: dalle porte girevoli che non girano più senza badge.
E allora, mentre la premier usa la vetrina Udc per lanciare la sua sfida identitaria, in Sicilia lo scudo crociato ripete il suo mestiere: posizionarsi. Non significa contare; significa contarsi al momento giusto, per diventare indispensabili a chi conta davvero. La differenza tra politica e politicantismo è tutta qui. La prima cammina alla luce del sole, la seconda si infila tra le pieghe dei regolamenti e dei listini. Se l’Udc vuole uscire dal ruolo di cartonato – e se chi la frequenta vuole smettere di considerarla un taxi – servono due atti elementari: dire, con numeri e persone, cosa si vuole fare per la Sicilia; e spiegare, con nomi e circostanze, chi frequenta i corridoi del potere in nome e per conto di chi.
Altrimenti, fra qualche settimana, ricominceremo da capo: un palco, un simbolo, due frasi ad effetto, uno strapuntino. E la politica vera – quella che sposta risorse, riduce le liste d’attesa, apre cantieri, chiude carrozzoni – resterà fuori scena.