Cataldo Tandoy, capo della Squadra Mobile di Agrigento, viene assassinato il 30 marzo 1960, mentre è a passeggio con la moglie nel centralissimo viale della Vittoria. La prima ipotesi è “delitto passionale”: per alcuni mesi finisce in carcere l’amante della donna, il prof. Mario La Loggia, che era il direttore dell’ospedale psichiatrico di Agrigento, nonché il fratello di Giuseppe, ex presidente della Regione siciliana. Ma il lavoro degli inquirenti è fatto male. Michele Guardì, che dal 21 al 30 ottobre porta ‘Il caso Tandoy’ in scena al Teatro Al Massimo di Palermo (nel cast Gianluca Guidi e Giuseppe Manfridi), va oltre le prime impressioni: “Non lo definirei un caso di malagiustizia – esordisce l’autore e regista originario di Casteltermini -, ma il caso di un singolo magistrato che si intestardisce su una tesi assurda e insensata. Perché mancano le prove. La cosa incredibile è un’altra: lo stesso magistrato, infatti, sostiene che in assenza di prove, è l’intelligenza del giudice a stabilire qual è la verità”.

Un peccato di vanità.

“Ma soprattutto di metodo: prima individua l’assassino, poi cerca le prove. Che non trova. Per fortuna ci sono i suoi colleghi: dal giudice istruttore alla Corte d’assise di Palermo, tutti dicono che il procedimento del procuratore di Agrigento è fondato sul nulla. Il giudice istruttore proscioglie gli imputati, e quando il magistrato inquirente si intestardisce e si appella contro la decisione, accusandolo di aver preso un abbaglio, anche la Corte d’Assise li assolve perché il fatto non sussiste”.

Fin qui la trama. Ora i messaggi. Ce n’è uno anche per i giornali…

“Di fronte alla fantasiosa e intrigante ipotesi del delitto passionale, nel quale era coinvolto un uomo importantissimo come il professor La Loggia, i giornali dell’epoca impazzirono. Pubblicarono pagine e pagine. Ma il giorno in cui gli imputati vennero assolti, uno di essi uscì in prima pagina col risultato di Parma-Palermo: zero a zero. Il caso non faceva più notizia”.

Sembra oggi.

“Ci sono parecchi richiami all’attualità”.

Non era un delitto passionale, ma un delitto di mafia.

“Quando il sostituto procuratore di Palermo, Fici, dopo l’assoluzione degli imputati, viene mandato ad Agrigento per capire cosa è accaduto, scopre un groviglio di delitti connessi al caso Tandoy e fa arrestare altre dieci persone. Quindici anni dopo arriva la sentenza: dieci ergastoli e una condanna a trent’anni. Nessuno, tranne l’esecutore materiale, finì in galera. Qualcuno era scappato, altri erano già in carcere o morti di vecchiaia. Il caso si chiude senza un vero colpevole. Ma avviene un’altra cosa sorprendente…”.

Cosa?

“Quando il sostituto procuratore si stava spingendo oltre, per scoprire le connessioni con alcuni delitti eccellenti legati a politici e sindacalisti, lo chiamarono da Palermo e gli tolsero l’indagine. Un attore in scena dice che ‘ci sono certi gradini sui quali neanche la magistratura può mettere piede’”.

Come si presta a una commedia un caso così sconvolgente?

“Nemmeno l’autore più fantasioso avrebbe mai pensato a una ricostruzione come quella del procuratore di Agrigento: ed è qui che si innesta l’ironia. Il pubblico si trova di fronte a uno spettacolo che non immagina: la storia di Tandoy è un pretesto per un affresco sulla vita, di ieri e di oggi. Ciò che ne viene fuori è straordinariamente curioso. Di solito si dice che nelle tragedie c’è sempre un pizzico di farsa: “Il caso Tandoy” non fa eccezione”.

Come finisce la farsa?

“Con la stessa lapide di marmo che il prof. La Loggia, dopo essere stato assolto, fece murare all’ingresso del manicomio. Dice: ‘qui non tutti ci sono e non tutti lo sono’”.

Dopo Palermo, porterete lo spettacolo ad Agrigento. Dove tutto è cominciato. 

“Mi sembrava il minimo. Agrigento ha vissuto questa storia in maniera tormentata, ne è uscita massacrata perché una serie di articoli l’accusavano di essere una città corrotta e peccaminosa. In fondo era una comunissima storia d’amore, alla presenza di due amanti.”.

Qual è il giudizio di critica e pubblico dopo le prime esibizioni?

“La parola giusta è ‘trionfo’”.