Due anni di agonia per la Sicilia, questa Sicilia, sarebbero un po’ troppi da sopportare. Eppure il quadro emerso dalla votazione dell’altro ieri all’Ars, con la bocciatura della riforma dei Consorzi di Bonifica, indica una sola direzione: la paralisi. La Regione è decapitata: l’Assemblea regionale è stata umiliata dai magistrati e dall’inchiesta della Procura di Palermo, che coinvolge il suo presidente (delegittimato) con “cerchio magico” al seguito; il governo, al contrario, è stato impallinato da una decina di franchi tiratori e rimane ostaggio delle pratiche clientelari che questi deputati – celati, ovviamente, dietro il voto segreto – vorrebbero ripristinare da subito con la Finanziaria-ter.

Insomma, sembra non esserci modo per andare avanti. Fino a qualche settimana fa Schifani ribadiva la compattezza della compagine di centrodestra, ma il mondo s’è rovesciato in ventiquattr’ore. A individuare i “colpevoli” è stato Totò Cuffaro: “Abbiamo assistito ad un comportamento irresponsabile da parte di alcuni deputati di Fi, Fdi ed Mpa – dice il segretario della DC -. Pretendere ed ottenere in commissione modifiche al testo di legge sui Consorzi di Bonifica e poi bocciare l’articolato è legato esclusivamente a ripicche e risentimenti personali”. Anche il Movimento per l’Autonomia ha gettato la maschera: “Le sbandierate innovazioni contenute nella riforma, a nostro avviso, rappresentano, un inutile appesantimento delle funzioni svolte dai Consorzi, senza essere in alcun modo risolutive rispetto all’unico vero obiettivo che è quello di portare l’acqua alle colture”. Il dito è puntato contro la Lega, rea di aver osato “identificare con la consueta iattanza i presunti colpevoli”. Ma anche contro lo stesso Cuffaro: “Non venga a farci lezioni di buona politica o ad accusare gli altri di antipolitica”.

Siamo al regolamento di conti, forse un tantino oltre. Schifani ha provato a rassicurare gli agricoltori infuriati, promettendo che la riforma sarà riproposta al rientro dalle vacanze estive. Ma adesso il capo dell’esecutivo dovrà cercare di mandare in porto una finanziaria-ter – la manovrina – che nasce sotto i peggiori auspici. Anche Forza Italia, il partito del presidente, è poco contenta della situazione (almeno tre deputati si sarebbero sfilati dal voto di martedì) e lamenta disparità di trattamento nell’assegnazione di contributi da parte dell’assessorato all’Agricoltura per la sagra del pistacchio di Bronte: “Mentre il Consorzio di Tutela ha ottenuto un contributo di 50.000 euro per il suo evento, il Comune di Bronte che per trent’anni ha organizzato la Sagra ricevendo mediamente 40-50 mila euro di contributi annui, quest’anno non ha ancora ricevuto alcun finanziamento”, sostiene il deputato dell’area Falcone, Salvo Tomarchio. Segno che il vero nodo da sciogliere riguarda le mance.

Potrà Schifani subire il “ricatto dei ricatti” e aprire agli emendamenti “territoriali” un testo considerato “blindato”? Potrà la maggioranza, in caso contrario, avere la forza dei numeri per far passare la proposta di legge a Sala d’Ercole? E’ paradossale, quasi parossistico, che la politica siciliana sia ridotta a questo. Eppure… Tutti i partiti sono in difficoltà, anche perché le magre figure di questi giorni – al netto della campagna acquisti in corso – rischiano di erodere ulteriormente la fiducia dei siciliani, ormai ridotta ai minimi storici. Un partito che non sa dimostrarsi forza di governo, e che non riesce a farsi interprete di una sola riforma in tre anni, davvero ha poco senso di esistere.

Lo sfacelo di questi giorni, che rischia di mandare in paranoia il governo e che forse esigerebbe una rapida soluzione finale (nuove elezioni), è figlio di quanto accaduto nell’ultimo mese. Cioè delle vicende che hanno ridicolizzato l’Assemblea regionale e il suo presidente, Gaetano Galvagno. Che non ha più la forza né la necessaria credibilità, per gettare l’amo della diplomazia e far abboccare i pesci. L’esponente di Fratelli d’Italia, che venerdì sarà ascoltato dai probiviri del suo partito, è stato falcidiato dalle intercettazioni pubblicate dai giornali, che mostrano una gestione del potere alquanto opaca. Assieme al cerchio magico, secondo i magistrati, avrebbe tratto il massimo profitto (in termini di “utilità”) dalla concessione di contributi pubblici, attraverso leggi approvate dall’Ars.

Galvagno pensava, forse, di essersi liberato dall’imbarazzo presentandosi in aula e dando la sua versione dei fatti (sebbene parziali), di fronte ad alleati che lo imploravano a “fare due passi avanti”. Non si è dimesso – nonostante le azioni attribuite alla sua ex portavoce, Sabrina De Capitani – e ha preferito trascinare a fondo un parlamento intero. Non ha mai pensato di separare il piano personale da quello istituzionale: ha provocato una perdita di credibilità per entrambi, e questo è inammissibile per un uomo dello Stato. Ha peggiorato la propria situazione presenziando, nel giorno del 33° anniversario della Strage di Via d’Amelio, al matrimonio del figlio di Cuffaro, snobbando invece il ricordo di Paolo Borsellino e della sua scorta (ed evitando di intralciare Arianna Meloni alla fiaccolata di Palermo). Una gaffe che ha provocato “sconcerto” tra i patrioti.

Anche il presidente della Regione, confermando Elvira Amata nel ruolo di assessore al Turismo ed evitando con ogni mezzo possibile il confronto all’Ars, non è stato l’emblema della trasparenza. Né l’intervento nella Sala Vip dell’aeroporto di Punta Raisi – e l’attivazione di sette ispettori dell’Asp per verificare lo stato di riso e caponata – può rappresentare una manifestazione bastevole di rigore e legalità. La questione morale non può ridursi alla dieta mediterranea. C’è in mezzo molto altro. Ed è per quello che c’è in mezzo che la Sicilia, nei prossimi due anni, rischia il baratro.