Prima la parifica della Corte dei Conti, che ha evidenziato un “buco” da quasi 900 milioni per cui servono risposte immediate (magari un accantonamento nella prossima Finanziaria); poi la lite con Gianfranco Micciché, che ha fatto emergere i tratti più spigolosi del suo carattere deciso. L’assessore Marco Falcone, nel bene e nel male, è il personaggio del momento. Parte da una condizione di svantaggio, anzi due: aver ereditato il ruolo più delicato dell’amministrazione regionale, dove dovrà occuparsi di conti e di diatribe (con la Corte dei Conti se va bene; con la Consulta e il governo nazionale nella peggiore delle ipotesi); e ricevere in dote l’esperienza di Gaetano Armao, che secondo le Sezioni riunite della Corte dei Conti è meno adamantina di quanto voglia far apparire chi, oggi, incarna la “continuità amministrativa”.

Ci sarebbe un terzo aspetto che, purtroppo per l’assessore, filomusumeciano dop, non lo pone in una condizione di vantaggio: aver fatto parte della giunta che ha deciso, in barba a qualsiasi dettame legislativo – sono i magistrati contabili a dirlo – di spalmare il disavanzo in tre anni anziché in dieci (se Crocetta ha creato il “buco”, Musumeci & Co. non l’hanno mai tappato, anzi). E la questione potrebbe persino peggiorare se, come pare, Falcone e Schifani dovessero intestardirsi per far “cadere” la questione di costituzionalità, aprendo un altro fronte di scontro con la magistratura contabile (ammesso che una leggina del governo Meloni, da confezionare entro la fine del mese, glielo consenta).

Questo antefatto serve a stabilire che Marco Falcone è senz’altro uno degli assessori più sotto pressione in questo avvio di legislatura. Perché la legislatura dipende da come lui e Schifani, ma anche il ragioniere generale, Ignazio Tozzo, riusciranno a gestire questa “combutta”. Se l’idea è fare buon viso a cattivo gioco, prima confermando la bontà della collaborazione istituzionale coi giudici, poi crocifiggendoli per aver sospeso il giudizio di parifica, il timore è che non si andrà molto lontani. C’è un però: che l’assessore Falcone, in queste ore così calde per il destino del governo, è tornato a occuparsi di politica. A mettere in mezzo questioni che ai siciliani interessano il giusto, ad alimentare il germoglio di uno scontro infinito, che ha lacerato e fatto a pezzi la credibilità del secondo partito della coalizione (per pochissimi decimali) dietro Fratelli d’Italia.

Ed è ancora più grave che l’ultimo atto di questo scontro sia arrivato in territorio “nemico”: alla Festa del Tricolore organizzata da FdI, anche se Falcone giocava in casa per le note simpatie di destra e per il fatto di trovarsi a Catania, il suo feudo. Per la prima volta, forse, ha usato una circostanza pubblica per riversare sul coordinatore regionale del suo partito un’ira covata troppo a lungo: “Te ne devi andare a casa, Forza Italia non ti riconosce più”, è stata l’ultima sciabolata contro Micciché. Che però resta la guida di FI in Sicilia, perché Berlusconi ha voluto così. E fino a prova contraria non ha ancora cambiato idea: al partito, forse, servirebbe un cenno del vecchio leader per capire chi è dentro e chi fuori. O l’unica cifra rimarranno l’imbarazzo e il turpiloquio.

Micciché non è mai stato un santo. Deciso, ironico, a tratti sprezzante. Come qualche giorno fa, in aula, durante il dibattito seguito alle dichiarazioni programmatiche di Schifani: “Veniamo da cinque anni di presa per il culo, con un assessore all’Economia davvero imbarazzante. Anche se non lo amo molto io ho fiducia in Marco Falcone, che è più stronzo ma più serio di Armao”. I due, Falcone e Armao, sono gli stessi che da ex colleghi di partito (prima che il secondo transitasse alla corte di Calenda) tentarono più volte il blitz per sradicare Micciché dalla guida di FI. Nonostante Berlusconi. Una volta, riuniti gli accoliti, elessero un nuovo capogruppo fantoccio all’Ars: il malcapitato Mario Caputo. Poi, dopo una campagna elettorale di tregua e di finzioni, il banco è saltato al momento delle scelte: con l’incaponimento di Micciché sulla sanità, e la risposta di tutto punto di Falcone, tra i fondatori di ‘Forza Italia all’Ars’, il gruppo parlamentare parallelo.

Il clima, già teso, è stato alimentato dalla definizione di ‘capocorrente’ affibbiata da Micciché a Schifani nella sacralità di Sala d’Ercole, a margine delle dichiarazioni programmatiche del presidente. Falcone, un uomo schiacciato tra il lascito del vecchio amico Armao e la Corte dei Conti, tra il presidente di tutti Schifani e il “guastatore” Gianfranco, alla fine è esploso. Ha attaccato a testa bassa, sfruttando una circostanza che il popolo di Fratelli d’Italia già bramava (e che sicuramente non gioverà alla credibilità dei berluscones). Ma nel giorno del giudizio, i fendenti più duri nei confronti di Falcone non sono arrivati da Micciché, che l’ha tacciato (solo) di “poltronismo”, prima di girare i tacchi e desistere. Ma dal suo fedelissimo alleato, Michele Mancuso, che ha definito l’assessore “un inquilino abusivo che da sempre strizza l’occhio a destra” e che sta tentando di “distruggere un partito che fino ad oggi è stato il fiore all’occhiello di un’Italia che si rispecchia nei valori liberali. Se devo essere sincero, in una cosa Micciché ha sbagliato – ha affermato Mancuso -: nell’avere permesso che tali soggetti diventassero classe dirigente di Forza Italia in Sicilia”.

Falcone si è limitato a ripetere che “di fronte ai ripetuti insulti, abbiamo solo ribadito concetti già espressi da tempo. Da sempre siamo in campo seguendo il principio irrinunciabile della lealtà”. Prima a Musumeci, oggi a Schifani. A volte però sarebbe utile saper discernere. Questa due giorni incandescente ha fatto malissimo al partito, ormai polverizzato dalle liti; e soprattutto alla credibilità del governo. Non tanto e non solo perché in aula la maggioranza è tutta da conquistare. Ma, sul piano pratico e amministrativo, perché ha dimostrato di non voler accettare la sentenza della Corte dei Conti, mirando a contrastarla in ogni modo, e senza nemmeno attendere il giudizio della Consulta. Avallando i possibili errori (per non far colare a picco la Sicilia, s’immagina), senza imporre un cambio di rotta rispetto ai metodi di profonda inefficienza (non c’è solo il disavanzo, ma anche 400 milioni di poste “irregolari”) che hanno portato i magistrati a sospendere il giudizio di parifica. Niente, nemmeno una parolina. Figurarsi un mea culpa. Falcone, nella sua natura una e trina (assessore, ex assessore e leader di partito) non ha trovato il modo. Troppa pressione addosso.